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REVIEWSLE RECENSIONI
12/05/2022
Honeyglaze
Honeyglaze
C’è una leggerezza agrodolce in queste composizioni, una semplicità nelle melodie che sfiora a volte la banalità ma che si dimostra nonostante tutto irresistibile. In attesa di vederli dal vivo, archiviamo questo esordio nella lista delle cose belle del 2022.

Forse è presto per stabilire se la Speedy Wunderground saprà essere per la musica indipendente di questi nostri anni quello che la Creation o la Sub Pop furono nei decenni precedenti. Sta di fatto che la piccola etichetta di Dan Carey si sta lentamente ponendo come punto di riferimento per una scena, quella legata a South London e al The Windmill, che sempre di più sembra salire alla ribalta.

Gli Honeyglaze sono gli ultimi arrivati in questa lunga lista di scoperte del produttore inglese (che, al di là dell’etichetta, è comunque l’artefice del suono di Fontaines DC, Squid, Black Midi, Wet Leg e parecchi altri) ma parrebbero possedere tutte le carte in regola per giocare un ruolo di primo piano.

Giovanissimi, vengono fuori da Anouska Sokolow, che inizia molto presto a scrivere canzoni e si esibisce chitarra e voce in diversi locali. Lei stessa ha dichiarato che non voleva ridurre la sua musica ad un mero progetto solista (forse per non andare ad ingrossare le fila del già numerosissimo gruppo di cantautrici di stampo Indie Folk degli ultimi anni) e ha così allargato la line up includendo gli amici Tim Curtis (basso) e Yuri Shibuichi (batteria). Tutto questo è avvenuto in tempi molto recenti, a poche settimane dal primo lockdown.

Dan Carey li ha notati e scritturati immediatamente, nel settembre del 2021 è uscito il singolo “Burglar”, primo passo di una marcia di avvicinamento che è culminata a fine aprile con la pubblicazione del disco di debutto.

Nel raccontare le sue influenze, la Sokolow ha fatto i nomi di Nick Drake, Johnny Greenwood e Angel Olsen; sin dalle loro prime cose, la stampa li ha paragonati ad artisti come Whitney e Julia Jacklin. Io ci ho trovato piuttosto quella patina di oscurità e tristezza a ricoprire una base di leggerezza Pop che mi ha richiamato piuttosto i Sad Lovers and Giants. Con la band britannica, mai troppo ricordata ma presente sotto traccia in parecchie produzioni recenti che si richiamano all’immaginario Post Punk e New Wave, hanno in comune, al di là della voce femminile, soprattutto gli arrangiamenti scarni e il suono ruvido, tipico di chi non ama troppo rifinire i dettagli e preferisce un approccio diretto.

In effetti lo hanno registrato in tre giorni, suonandolo praticamente dal vivo, perché dicono che questa è la loro dimensione migliore.

C’è una leggerezza agrodolce in queste composizioni, una semplicità nelle melodie che sfiora a volte la banalità ma che si dimostra nonostante tutto irresistibile: basti ascoltare “Shadows”, che di fatto apre il disco dopo una “Start” che prepara il terreno coi suoi ricami chitarristici e la sua sensazione di marea che sale. È un brano che profuma di suggestioni sixties, che comunica un volersi librare sopra alle cose tipica della giovane età del trio. Stessa formula e stesse intenzioni per “Female Lead”, piglio un po’ più sostenuto, echi di La’s per un brano tutto sommato divertente, che racconta l’episodio (autobiografico?) di una ragazza che si tinge i capelli di biondo per assomigliare ad un’attrice che ha appena visto sullo schermo e che invece combina un disastro.

Altrove lavorano di più sulla sezione ritmica: “Half Past” ad esempio contiene alcuni accorgimenti che fanno capire come dietro l’apparente linearità delle composizioni si celino musicisti abili che sanno andare insieme, amano improvvisare e lavorano molto sulle dinamiche. Stessa cosa si può dire per “I Am Not Your Cushion”, che vive sul contrasto tra una chitarra dritta e un ritornello che rallenta il ritmo e che apre ad un’atmosfera di triste contemplazione.

Molto bella in questo senso anche “Souvenir”, ritornello di facile presa su una batteria che ricama pattern irregolari.

E poi ci sono tracce come “Creative Jealousy” e “Young Looking” dove Synth e tastiere si ergono protagonisti, a creare un feeling deliziosamente Pop, con un occhio strizzato agli Eighties.

Impossibile, infine, non citare “Burglar”: il loro primo parto è anche la cosa migliore del disco, netto cambio di intenzioni rispetto alle altre, molto più cupa, una chitarra arpeggiata che disegna melodie sghembe e vagamente inquietanti, un senso di sospensione e minaccia incombente accentuato dal testo, a quanto pare ispirato a una poesia di Bukowski (“I was beaten down/ Not so very long ago/ It was in another town/ By a fear you don't know”).

In attesa di vederli dal vivo, ovviamente l’unico modo per poterli giudicare pienamente, archiviamo questo esordio nella lista delle cose belle del 2022.