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REVIEWSLE RECENSIONI
How Long Do You Think It’s Gonna Last?
Big Red Machine
2021  (Jagjaguwar)
INDIE ROCK ALTERNATIVE AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS
7,5/10
all REVIEWS
27/08/2021
Big Red Machine
How Long Do You Think It’s Gonna Last?
Un cast assurdo, composto da alcuni dei più importanti nomi della musica contemporanea, e un'ora abbondante di Alternative Folk curato maniacalmente nei dettagli. L’unica cosa che si potrebbe obiettare ai Big Red Machine è che è tutto talmente bello da sembrare finto.

Era il 2019, l’ultimo anno in cui il Primavera Sound si è svolto regolarmente (mi piacerebbe scrivere che nel 2022 finalmente torneremo ad andarci ma, ahimè, lo scenario non è rassicurante) e nella serata del mercoledì al Parc del Forum, gratuita e accessibile a tutti, una sorta di festa di inaugurazione del Festival, il gruppo principale furono proprio i Big Red Machine. Il loro disco di debutto era uscito quasi un anno prima e dal vivo avevano suonato pochissimo, visti gli impegni dei membri principali con le rispettive band. Ci sentimmo dei privilegiati, noi che eravamo lì, e in effetti fu una gran serata. Suonarono benissimo, con una formazione allargata e con una Julien Baker alle backing vocals che non si sentì quasi per nulla ma che costituì lo stesso un valore aggiunto.

Non sto raccontando questo in nome dei bei vecchi tempi (di nostalgia patologica da concerti ne abbiamo fin troppa, direi) ma perché in quell’occasione ascoltammo sì qualche brano dell’album ma anche e soprattutto cose nuove, che a volte avevano la forma di canzoni finite, altre erano abbozzi di idee o parti di improvvisazioni. Lo dissero anche loro, ad un certo punto: stasera ci stiamo divertendo, ne stiamo anche approfittando per provare un po’ di materiale nuovo, per vedere se funziona. Funzionava, indubbiamente, e la risposta entusiasta del pubblico lo fece adeguatamente capire.

Nel novembre dello stesso anno suonarono ad Eau Claire, Wisconsin, la città dove Justin Vernon ha il suo studio e dove sono nati tutti i dischi di Bon Iver. Era l’ultima serata dell’Eaux Claires Hiver e in quell’occasione, stando a chi c’era, dei brani del vecchio disco ne fu suonato uno solo, tutti gli altri erano inediti.

Tutto questo non fa che confermare la natura di questa band, a metà tra il side project e il gruppo di amici che cazzeggia in sala prove, un disco arrivato quasi per caso dopo una collaborazione estemporanea a scopo benefico ed un collettivo fluido che ha sempre affiancato il nucleo principale espandendosi di volta in volta a seconda delle occasioni, un processo lavorativo libero da vincoli e paletti, con l’unica priorità di seguire l’ispirazione per realizzare bellezza.

E così arriviamo a How Long Do You Think It’s Gonna Last?, il secondo capitolo della saga Big Red Machine, che nessuno, forse neanche loro, avrebbe potuto prevedere all’inizio ma che adesso ci parla di un progetto solido e concreto, senza nulla da invidiare, per livello artistico e ambizioni, a quanto portato avanti con le rispettive realtà dei singoli membri.

E ascoltando queste quindici canzoni per un’ora abbondante di musica (un po’ troppo lungo, se dobbiamo essere del tutto sinceri) si ha netta l’impressione che si tratti di una sorta di capitalizzazione, di un passare in cassa a prendere ciò che si è guadagnato nel corso di questi anni e che ancora non si aveva avuto l’occasione di ritirare del tutto. Parafrasando: Aaron Dessner è un musicista di livello superiore, lo abbiamo visto sia nei The National sia nei suoi lavori a latere (la scrittura e la produzione per Lisa Hannigan e Taylor Swift, sopratutto); Justin Vernon si è messo in luce in svariati modi ma bastano i suoi dischi come Bon Iver a fare curriculum, unitamente al credito che si è guadagnato nella scena Urban contemporanea, concretizzata in una serie di fruttuose collaborazioni.

Coi Big Red Machine mettono assieme i talenti e fanno ulteriormente vedere di che cosa sono capaci di fare. Un team creativo che non è mai stato così ampio e che si concretizza in una lista di credits lunghissima, con Brad Cook e Jonathan Low ad affiancare Aaron Dessner nel lavoro in studio, e il contributo di tanti musicisti: James Krivchenia, Jason Treuting e J.T. Bates alla batteria, Dave Nelson ad occuparsi dell’arrangiamento degli ottoni, Andrew Broder ai sintetizzatori, Yuka Numata Resnick a violino e viola, Michael Lewis al sassofono, solo per citarne alcuni. Ciliegina sulla torta, la presenza di Bryce Dessner e Bryan Devendorf in più di una traccia, sia nella veste di arrangiatori che di co autori.

Ancora più ampia la platea delle voci, che è forse la novità più significativa rispetto al disco d’esordio: oltre allo stesso Vernon, che si occupa della maggior parte delle tracce, ci sono anche contributi da parte dello stesso Aaron Dessner, che per la prima volta si è cimentato nel ruolo di cantante (“The Ghost of Cincinnati” e “Brycie”, un brano dedicato al fratello), Robin Pecknold dei Fleet Foxes, Anaïs Mitchell, Ilsey, Naeem, Sharon Van Etten, Lisa Hannigan, Ben Howard, This is The Kit, nonché la stessa Taylor Swift, che canta in un brano tutto suo e duetta con Vernon in un altro.

Un cast assurdo, composto da alcuni dei più importanti nomi della musica contemporanea, un motivo già di per sé sufficiente per accostarsi al disco.

Che comunque, entrando a fondo nei contenuti, non smentisce affatto le premesse iniziali: il livello medio è alto, rispetto al precedente la forma canzone è prevalente, l’elettronica è molto meno preponderante e si amalgama in maniera molto più naturale con le chitarre acustiche e le orchestrazioni, per un risultato finale che assomiglia molto di più a quell’Alternative Folk (chiamiamolo così per comodità, sappiamo che è molto di più) che sia Bon Iver che gli ultimi The National hanno espresso così bene in passato.

Ovviamente gli ospiti danno il loro contributo e personalizzano a dovere gli episodi nel quale sono coinvolti, per cui “Renegade”, il pezzo della Swift (che ha anche tirato fuori il titolo del disco, a quanto dicono), si pone in naturale continuità con quanto già sentito su Folklore ed Evermore, “Latter Days” e “New Auburn” (quest’ultima è forse la più bella in assoluto, a mio parere) brillano della magnifica interpretazione di Anaïs Mitchell, carisma e personalità come pochi ce ne sono in giro; Ben Howard si fa sentire parecchio su “June’s a River”, che a tratti sembra un suo pezzo; “Phoenix” possiede quel piacevole tocco Oldie degli ultimi Fleet Foxes, “Mimì” ha il tocco Pop di Ilsey, che è anche coautrice del brano.

Il tutto senza però snaturare l’impronta di fondo della scrittura dei due, senza spezzare la continuità dell’insieme: alla fin fine, nonostante la lunghezza e il numero esorbitante di persone coinvolte, questo rimane un disco omogeneo, senza troppi stacchi. Un disco che riesce anche ad essere tutto sommato sereno, se non proprio pacificato, nonostante affronti temi personali e drammatici, come la giovinezza che svanisce, i matrimoni che finiscono, le depressioni (a proposito, “Hutch”, uno degli episodi più toccanti, impreziosito dalle voci di Sharon Van Etten e Lisa Hannigan, è stato scritto per Scott Hutchison dei Frightened Rabbit, grande amico di Aaron, che aveva anche prodotto il loro ultimo album).

Alla fine l’unica cosa che si potrebbe obiettare è questa: che è tutto talmente bello da sembrare finto; o meglio, che l’indubbia libertà creativa di cui i nostri hanno usufruito, incrociandosi col lavoro certosino di arrangiamento e produzione, la maniacale cura dei dettagli per cui gli autori di questo progetto sono da sempre famosi, abbia partorito sì un disco di canzoni splendide ma a tratti anche un filino di maniera. C’è in effetti il rischio, forse anche a causa della lunghezza eccessiva dell’insieme, di trovarsi di fronte ad un esercizio di stile, per quanto di livello elevatissimo. Manca un po’ di freschezza, probabilmente, ma da gente che scrive a questo ritmo ed è impegnata su così tanti fronti, può succedere.

Non lo vedrei comunque come un grosso problema: questo disco riceverà un sacco di complimenti, sarà in cima a tante classiche di fine anno e se lo meriterà in pieno. Semplicemente, a conti fatti, il primo sembrava più spontaneo e meno costruito.


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