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REVIEWSLE RECENSIONI
03/01/2020
Beck
Hyperspace
Nonostante la lavorazione celere e i tanti collaboratori intervenuti, Hyperspace è comunque un lavoro stilisticamente estremamente rigoroso, dal momento che per tutto il disco Beck e Pharrell sono rimasti fedeli a un’idea di suono ben precisa, di elegante retrofuturismo

All’altezza di Sea Change, il suo capolavoro del 2002, molti si sono chiesti – lecitamente – che cos’avrebbe fatto Beck da grande. Quale tipo di artista sarebbe stato, quale delle sue due anime avrebbe preso il sopravvento? Quella Pop dadaista di album come Mellow Gold e Odelay oppure quella del folksinger di One Foot in the Grave e Mutations? A diciassette anni di distanza, la risposta soffia ancora nel vento, soprattutto perché all’indomani di Guero (2005) e The Information (2006), Beck ha come ridimensionato la scala dei suoi dischi. Non ingannino i premi ricevuti ultimamente, come il Grammy per il disco dell’anno per Morning Phase (2014) e quello per il miglior album di musica alternativa per Colors (2017), riconoscimenti che vanno letti in buona sostanza come dei tributi alla carriera. Dopo il tripudio di suoni, colori e idee degli album realizzati con i Dust Brothers e Nigel Goodrich, Beck ha infatti inanellato tutta una serie di lavori da piccolo artigiano del Pop, ognuno dei quali è a tutti gli effetti un esercizio di stile attorno a un tema specifico: il Pop anni Sessanta di Modern Guilt, il Country e il Folk di Morning Phase e il Pop anni Ottanta di Colors.

Anche questo Hyperspace, quattordicesimo capitolo ufficiale della discografia di Beck, non fa eccezione alla regola. Registrato in gran parte con Pharrell Williams nelle vesti di co-produttore, l’album ha avuto una gestazione piuttosto rapida. Alla conclusione del tour di Colors, infatti, Beck è andato in studio da Pharrell con l’intenzione di contribuire a un nuovo album dei N.E.R.D., solo che il materiale su cui i due hanno effettivamente lavorato è risultato più abbondante del previsto. Da lì la decisione di realizzare un Ep che, strada facendo, grazie all’aggiunta di un altro paio di pezzi realizzati assieme a Greg Kurstin e Paul Epworth, si è trasformato in un album vero e proprio.

Nonostante la lavorazione celere e i tanti collaboratori intervenuti (Sky Ferreira canta su “Die Waiting” e Chris Martin dei Coldplay è su “Stratosphere”) Hyperspace è comunque un lavoro stilisticamente estremamente rigoroso, dal momento che per tutto il disco Beck e Pharrell sono rimasti fedeli a un’idea di suono ben precisa, di elegante retrofuturismo. Con i suoi layer di synth analogici, le drum machine e un certo minimalismo sonoro (chiaro marchio di fabbrica di Pharrell), Hyperspace è un album costruito attorno a un’idea nostalgica e malinconica del futuro. Ne esce quindi un album che da un lato ricorda Midnight Vultures per la volontà di giocare con i suoni degli anni Ottanta, e dall’altro è pregno della malinconia astrale ed esistenziale di Sea Change e Morning Phase. Hyperspace sta esattamente a metà del guado, tra i synth e le drum machine del primo e le chitarre acustiche dei secondi, creando un’atmosfera allo stesso tempo straniante e accogliente. Proprio come lo sono gli anni Ottanta visti da qui.


TAGS: beck | hyperspace | loudd | pop | review | rock