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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
19/10/2020
L’ULTIMA MISSIONE di Olivier Marchal (2008)
Il buio si avvicina
E se un uomo non riesce a trovare un senso al dolore cosa deve fare?

          “E in giro non si sente nemmeno il mormorio di una preghiera”

    (Bob Dylan - Not Dark Yet)

“Dio mi ha tradito e io lo punirò”.

Inizia così quest’opera ultima, terminale in tutti i sensi, sia nella direzione di una disperazione senza fine, sia nel porre la pietra tombale sul discorso cine-letterario della detection; un film su una caccia all’uomo che al termine fa sbattere la faccia a terra disarcionati da un’amara verità. L’ultima missione è stato uno dei pochissimi film visti durante i mesi del lockdown quando mi sono imposto di non distrarmi e di focalizzare lo sguardo su quello che può capitare alle nostre vite.

Ecco, allora, una visione che si riallaccia a letture giovanili, vale a dire ai noir di Raymond Chandler e all’apparizione del primo detective nel racconto I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe. Nero su nero, pensando alla parola noir e al colore che, almeno per i racconti più macabri, viene spontaneo associare allo scrittore, morto in stato di ebbrezza.

Anche il protagonista del film è un alcolizzato,[i] Louis, che non riesce a reggere il dolore della perdita della figlia in un incidente d’auto, lo stesso che ha ridotto la moglie in stato vegetativo. Inutile dire chi sia il responsabile dell’accaduto.

 

                                                                          “Posso accettare il dolore, basta che abbia un senso”.

(Haruki Murakami)

 

E se un uomo non riesce a trovare un senso al dolore cosa deve fare?

Può bastare la preghiera, la speranza in un’altra dimensione dove porre questo dolore a lenire le ferite dell’anima? Louis non la trova e si dispera.

La storia di questo film è incentrata sull’ennesima ricerca di un assassino che viene visivamente inframmezzata dalle scene dell’incidente con cui il regista ci porta continuamente dentro alla morbosità dell’atto del vedere[ii]. Louis si sente abbandonato da Dio, quello stesso dio che un assassino da lui braccato quando era un giovane poliziotto, ora prega da (forse) redento.

Quando la figlia di una donna uccisa per mano del medesimo uomo lo informa che la bestia sta per essere rilasciata, un’altra ossessione si affaccia alla mente del nostro eroe, già incancrenita, intasata d’immagini.

“Care Carole e Luna,

io e Susie abbiamo imparato molto sulla natura del dolore negli ultimi anni. Siamo arrivati ??a vedere che il dolore non è un qualcosa che attraversi, poiché non c'è un'altra parte”.

(Nick Cave, Red Hand File #95)

Tremenda quest’ultima frase del cantante australiano. Sembra proprio descrivere lo stato d’animo di Louis, fermo, chiuso in una stanza dalle mura impenetrabili. La pellicola rafforza ancora di più questa sensazione mediante una resa fotografica cupa, nerissima. Difficile intravedere una finestra che prefiguri un fuori; gli ambienti non sono invasi da nessuna luce. Le pareti degli spogliatoi del commissariato sembrano trasudare un’umidità nerastra, quasi a simboleggiare gli inesistenti rapporti tra colleghi, minati dalla corruzione. Sembra di stare sottoterra, in un inferno buio, senza fiamme.

 

Louis, solo.

Non c’è posto in questo mondo per una persona come Louis che solo grazie al suo stato di servizio non è radiato dal corpo di Polizia, anche se pare faccia di tutto per uscirne. Palesemente alterato Louis sequestra infatti un bus dirottandolo verso casa sua, come a volersi allontanare dal dolore con cui ha a che fare tutti i giorni. Viene però fermato da una squadra in assetto antiterrorismo che gli imprime un’altra direzione, lo riporta indietro all’interno del meccanismo[iii]. Dobbiamo quindi pensare che le nostre azioni siano tutte predestinate?  

 

Un requiem per il romanzo giallo

Non è ancora finita Louis! Prima di annegare nel nero della tua dannazione (non ci sono fiamme ad avvolgerlo ma solo le immagini dell’incidente che gli tolgono il sonno) hai ancora un compito da portare a termine e dopo potrai dormire.

Se vogliamo parlare di una caccia all’uomo allora l’ultimo grande riferimento letterario che accompagna questa analisi è il racconto di Friedrich Dürrenmatt La promessa (che ha come sottotitolo la frase di cui sopra)[iv], che narra l’ossessione di un detective al suo ultimo incarico e l’imprevedibilità di un piano perfetto, mandato a rotoli dal destino. Opera definitiva sul genere, così come L’ultima missione che si pone come erede della tradizione cinematografica del Polar francese (genere che fonde Poliziesco e Noir). Il film è ambientato non a caso a Marsiglia, leggendaria cittadina da poliziesco (penso immediatamente a facce dure, da Polar appunto, come quelle di Jean Gabin o di Lino Ventura) dalle strade a saliscendi[v] come ad impedire lo sguardo sugli eventi.

“Per noi il dolore è diventato un modo di vivere, un approccio alla vita, nel quale abbiamo imparato a cedere all’incertezza del mondo, pur mantenendo una posizione di sfida alla sua indifferenza.”

(Nick Cave, Red Hand File #95)

Lo sguardo viene impedito anche se tutto è palesemente osceno, anche se la realtà dell’ambiente che circonda Louis è visibile nella sua corruzione. Volendo però restare nella terra di Dürrenmatt, il confronto è serrato perché nel libro[vi] la classica sfida tra protagonista e antagonista non ha soluzione. Un imprevisto farà in modo, infatti, che essi non s’incontrino, così come una pura casualità farà risolvere il caso al nostro protagonista, tramite un manifesto. Ancora lo sguardo, da un punto di vista esterno però, quasi un refuso dell’occhio che casualmente si posa su un’immagine rivelatrice.

 

I personaggi di questa storia non possono vedere, ed è molto difficile che si guardino negli occhi per più di qualche secondo; le riprese volutamente opprimenti tengono in scacco le loro azioni. Raramente vediamo gli occhi di Louis (quasi sempre coperti da occhiali scuri, neri) interpretato con dolente maestria da un Daniel Auteuil irriconoscibile, sfatto, imbolsito nel corpo e distrutto nel volto. Siamo agli antipodi dell’eroe: quelli che abbiamo davanti sono i resti di un uomo che non riesce più a vedere un orizzonte.

“Ci siamo arresi a qualcosa su cui non avevamo alcun controllo, ma ci siamo rifiutati di accettarla passivamente. Il dolore è diventato sia un atto di sottomissione che di resistenza - un luogo di acuta vulnerabilità - dove, nel tempo, abbiamo sviluppato un senso acuto della fragilità dell’esistenza.”

(Nick Cave, Red Hand File #95)

 

Anche la figlia della donna uccisa si è arresa nel cercare una pace possibile; anche lei come Louis ha la mente continuamente pervasa dalle immagini dell’uomo che da ragazzina le ha tolto i genitori (il flashback più duro del film). Uccisione a cui ha assistito nascondendosi con la sorella minore per proteggerla, pagando un prezzo altissimo: la perdita di padre e madre e dell’affetto della sorella che, una volta adulta, le rinfaccerà la scelta.

 

“Ecco che arriva il dolore, ecco che arriva il dolore, bello!”

(Frase in codice per far partire la catena che porterà ad un delitto in Omicidio in diretta di Brian De Palma)

 

Come trovare la pace, quando l’assassino che ti ha distrutto la vita sta per essere messo in libertà? Dove è Dio? Dove è la Giustizia? In una scena vediamo la testa dello scarcerato in una stanza, sotto al Crocifisso: si sarà redento veramente? Cosa ci fa allora, una volta in libertà, dentro ad una macchina a spiare la vita della ragazza che Louis sta cercando di proteggere? Bellissima la resa cinematografica tramite una presunta soggettiva dall’occhio dell’assassino uscito di prigione che ci fa percepire una presenza e infatti, la ragazza incinta, grida “c’è qualcuno?”.

 “Is there anybody out there?”

  (Pink Floyd, The Wall)

No, non c’è nessuno. Non c’è più nemmeno un luogo dove stare per Louis sia in senso fisico che figurato; il caso è risolto, la corruzione del sistema gli è apparsa in tutta la sua infernale meccanicità per cui tutti sapevano e nessuno ha agito per impedire altri omicidi. Cosa resta da fare allora? 

  

            “Solo gli uomini morti sono liberi” 

   (Bob Dylan, Murder Most Foul)

 

L’esergo iniziale di Dylan sulla preghiera assente trova compimento nella canzone più lunga della sua carriera, sorta di speech che chiude il suo ultimo album, il cui titolo ben si adatta a questa pellicola: Rough and roughly ways. Maniere spicce, ruvide.

Non c’è più tempo, anche perché il tempo per il nostro protagonista si è fermato a quell’incidente. Louis decide di risolvere i conti in sospeso con tutto e con tutti coloro che si sono frapposti alla sua ricerca di senso e prende in mano una pistola (il titolo originale del film è MR-73[vii], arma in dotazione nei dipartimenti francesi negli anni Settanta), brandita come la lama dell’angelo sterminatore su un mondo senza luce. Il montaggio delle scene della vendetta è alternato in modo classico e rimanda all’imprescindibile finale de Il Padrino dove le scene del Battesimo del figlio di Al Pacino sono alternate a quelle della resa dei conti da lui organizzata.

 

Nascita e morte.

“Alla fine il dolore è il tutto (…) il dolore è tutto reinventato attraverso le ferite sempre più emergenti del mondo. Ci ha rivelato che non avevamo alcun controllo sugli eventi e, mentre affrontavamo la nostra impotenza, siamo arrivati a vedere questa impotenza come una sorta di libertà spirituale.”

(Nick Cave, Red Hand File #95)

 

Nessuna libertà spirituale per Louis, solo la cecità di una vendetta che non porta alcun sollievo.

Il film, sempre con riferimento a Il Padrino e al Battesimo termina con lo sguardo di un neonato che guarda in camera, (guarda noi) e piange.

 

“Abbiamo scoperto che il dolore era molto più della semplice disperazione (…) Per noi il dolore è diventato un’attitudine, un sistema di credere, una dottrina, un abitare consapevole dei nostri sé vulnerabili, protetti e arricchiti dall’assenza di chi abbiamo amato e di ciò che abbiamo perso. (…) Susie dice di dirvi che è molto dispiaciuta per le vostre perdite, molto dispiaciuta e guardandola ora posso solo dirvi che col tempo c’è un modo, non al di fuori della sofferenza, ma nel suo profondo”.

 (Nick Cave, Red Hand File #95)

 

Post-Factum. Dio è morto?

(22/09/2020)

“Dio mi ha tradito e io lo punirò”.

Alla fine si torna alla prima riga di questo articolo con quella frase che in realtà ha il sapore dell’impotenza e vorrei farvi tornare alla data che ho posto sotto al titolo, perché questo articolo è stato inconsapevolmente scritto nel giorno del compleanno di Nick Cave. Ciò che questo artista sta regalando di sé penso sia qualcosa di unico nel panorama e nella storia della musica popolare, anche se sarebbe più consono usare il temine colta. Mentre vedevo il film continuavo a pensare al suo dramma e al contrasto con Louis così disperatamente solo a differenza di Cave, che nel rispondere alle libere domande dei fans ha trovato il modo di buttar fuori tutto quest’incommensurabile dolore e di percepire un abbraccio.   

Un cuore non è connesso a un altro solo da un’armonia. In realtà sono collegati profondamente tramite le loro ferite. Dolore con dolore, fragilità con fragilità. Non c’è silenzio senza aver sperimentato il pianto causato dal dolore, nessun perdono senza spargimento di sangue. Nessuna accettazione senza aver vissuto una dolorosa perdita”.

(Haruki Murakami, L’incolore Tsukuru Tazaki e gli anni del suo pellegrinaggio)

 

L’abbraccio del pubblico di Nick Cave durante il tour successivo alla morte del figlio.

 

Ho provato una sincera empatia nei confronti del protagonista del film che con la mente continua a tornare sul luogo del delitto di cui è responsabile: purtroppo per lui questo caso è irrisolvibile. Anche Nick Cave è tornato nella spiaggia dove nel 2015 è stato rinvenuto il corpo del figlio caduto da una rupe e ha cantato quel momento.

 

“Guidammo attraverso la notte, il vento le scompigliava i capelli

Parcheggiammo vicino ad una spiaggia nell'aria fresca della sera

A volte è meglio non dire nulla”

(Nick Cave, Waiting for you).

 

Si, certe situazioni sono inesprimibili.

Come dicevo, mentre scrivevo non ero consapevole che fosse il giorno in cui ricorreva la sua sessantatreesima nascita e, dopo esserne venuto a conoscenza per ringraziarlo di tanta condivisione, non ho potuto che restare in silenzio (l’altra faccia della Musica).

“La maggior parte di noi non vuole cambiare veramente. In effetti, perché dovremmo? Ciò che inseguiamo è una sorta di variazione dal modello originale. Proviamo sempre ad essere noi stessi, versioni migliori di noi stessi. O almeno così ci auguriamo. Ma cosa succede quando un evento è così catastrofico da cambiarci completamente? Ci trasformiamo in persone sconosciute.

Così, quando ci guardiamo allo specchio, riconosciamo la persona che eravamo. Ma ora, dentro la nostra pelle, vive una persona diversa”.

(Nick Cave tratto da: One more time with feeling, di Andrew Dominik)

 

The End?

Chiudo questo articolo con la classica scritta che compare al termine della visione di un film, aggiungendo però un punto di domanda per lasciare uno spiraglio. Di fronte alla desolazione del non sentire in giro nemmeno il mormorio di una preghiera posto in esergo, è sempre Bob Dylan che ci accompagna nella riflessione sull’esistenza.

La frase è tratta da una canzone dal titolo emblematico, Workingnman’s blues #2[viii], che per certi versi si presta a descrivere la condizione di Louis. “Ora il posto è circondato da innumerevoli nemici/alcuni di loro possono essere sordi e stupidi/nessun uomo nessuna donna sa/l’ora in cui il dolore arriverà”; viene alla mente un altro esergo già citato in questo pezzo, quello del film di Brian De Palma, in cui dagli spalti di un incontro di boxe un uomo urlava come frase in codice, l’arrivo del dolore. Il punto sta qui: continuiamo a vivere presi alle costole dai pugni della vita, eppure continuiamo, andiamo avanti a fare il nostro lavoro.

“Così continuiamo a vivere la nostra vita, pensai. Segnati da perdite profonde e definitive, derubati delle cose per noi più preziose, trasformati in persone diverse, che di sé conservano solo lo strato esterno della pelle; tuttavia, silenziosamente, continuiamo a vivere. Allungando le mani riusciamo a prenderci la quantità di tempo che ci è assegnata, e poi la guardiamo mentre indietreggia alle nostre spalle. A volte, nel ripetersi dei gesti quotidiani, sappiamo farlo anche con destrezza. Questi pensieri mi lasciarono una sensazione di terribile vuoto”.

(Haruki Murakami, La ragazza dello Sputnik)

 

È il deserto in cui si è perso Louis, nel vuoto di una domanda rimasta senza risposta. Forse troveremo le risposte da un’altra parte, un po’ come alla fine dell’album Murder Ballads (1995) in cui, dopo aver narrato storie di uccisioni, Nick Cave chiudeva con una cover, corale dei cantanti che avevano dato voce alle persone uccise e che potete sentire qui sotto.

“Oh, the tree of life is growing where the spirit never dies

And the bright light of salvation shine In dark and empty skies”.

(Bob Dylan, Death is not the end)

 

Not the End. Per non concludere.

Di preghiera in preghiera è proprio Nick Cave che introduce una riflessione legata al tempo che stiamo vivendo e all’emergenza sanitaria che si è riversata su noi tutti nel Red Hand File #92.

Forse qualcosa di più del mormorio invocato da Bob Dylan; una riflessione sulla preghiera sia come atto religioso che come richiesta laica:

“Nella nostra tracotanza pensavamo di sapere ma abbiamo dovuto inchinare le nostre teste all’eccezionale forza del virus e renderci conto di essere senza difese; ma questa vulnerabilità può essere per noi una grazia salvifica. Salvati dal nostro essere certi doniamo al mondo la nostra offerta più pura: le nostre preghiere”.

 

[Editing di Ornella Genua]

 

[i] Sugli ultimi giorni di Poe aleggia - e doveva essere per forza di cose così, quasi un destino - un grande mistero.

 

[ii] Analogamente a quando faceva David Cronenberg con un altro film terminale - nel senso della civiltà - Crash, quando uno dei protagonisti si sporgeva dal finestrino di un’auto per vedere meglio la scena di un incidente.

 

[iii] Un filo rosso lega questa scena all’inizio di un altro grande film sulla detection, anch’esso definitivo nella messa in scacco dei consolidati concetti di protagonista e antagonista: The Heat di Michael Mann. Mi riferisco alla scena iniziale, ripresa dall’alto con Robert De Niro che ruba un’ambulanza con la cinepresa che mostra sulla strada il segno di svolta a sinistra, in direzione contraria a quella intrapresa dal criminale, quasi a simboleggiare che stia sbagliando e che il suo piano fallirà

 

[iv] Trasposto magnificamente su pellicola da Sean Penn nel 2001, con quella che ritengo sia una delle ultime grandi interpretazioni di Jack Nicholson.

 

[v] Un po’ come a San Francisco, tanto per citare una serie poliziesca degli anni ’70 (Su e giù per le strade di San Francisco).

 

[vi] Con il protagonista che si diede all’alcol e alla follia di un’attesa eterna.

 

[vii] Per capire appieno il valore di un titolo del genere, cioè di quella che sembrerebbe una menzione in stile Ispettore Callaghan, bisogna arrivare al tremendo finale per vedere l’uso che ne farà Louis.

 

[viii] Questa citazione è l’unica a non essere farina del mio sacco e, in tal senso, m’è d’obbligo ringraziare Paolo Vites dalle cui pagine del suo Bob Dylan 2002-2020. Diciotto anni di canzoni e altro, Caissa Editore, 2020 ho tratto la frase.

 

 


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