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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
05/01/2022
Flares on Film
Il perpetuo limite tra libertà e misura ragionata
Chi siamo per davvero? E cosa davvero sta per accadere nel prossimo futuro? Che poi c’è da chiedersi: siamo capaci di sapere con certezza anche quel che è capitato appena qualche istante fa?

“Ciò che siamo, ciò che ogni brano può essere ha il dovere di essere frainteso, nel senso che ognuno deve vederci quello che può, quello che è. È come un lasciare le porte socchiuse” (F. Petracca).

Il terzo lavoro dei Flares on Film sembra farsi queste domande ed il risultato che mi arriva è un soporifero sentore di resa incondizionata alla consapevolezza di non saper dare una risposta. Intricato questo gioco di parole ma assai esaustivo. “About Love, War and Electricity” è un disco morbido, liquido, digitale e dunque matematicamente misurato dai computer (anche e non solo, sia chiaro). Eppure dentro la perfetta definizione dei limiti, i baresi guidati da Filiberto Petracca hanno saputo parlare di casualità, di quel perverso gioco che la vita mette davanti ogni qual volta il caso è chiamato a dover scegliere il divenire delle cose. “About Love, War and Electricity” è apolide, non è italiano, non ha un volto e un sesso, non ha un tempo per quanto al tempo demanda una distesa (anch’essa libera) di pace e di riflessione. Il lento incedere del bit, le voci a volte lo.fi a volte chill out, le ricorsive ricerche di quegli anni ’90 che più che americani sembrano berlinesi… e l’underground, il nuovo soul, il gusto metallico di suoni industriali che parlano di grandi vite metropolitane che scorrono quasi anestetizzate dal tutto e subito, dal mondo nuovo che scorre preciso e computerizzato. Ecco: “About Love, War and Electricity” è un disco di questo tempo nuovo, di chi un poco si è seduto e guarda, e osserva e contempla proprio questo tempo nuovo scorrergli accanto. Quasi non ne farà parte, quasi lo sa che ormai l’uomo nella sua inutile verità non ne farà parte.

“About Love, War and Electricity” non lo troveremo sui canali streaming gratuiti. Niente Spotify, niente soundcloud, niente che non sia a pagamento. Quindi se volete ascoltarlo, compratelo! E non diamo sempre ragione alle nuove normalità e non rispondiamo sempre “eh ma la realtà oggi è questa”. Siamo noi la realtà. Noi decidiamo cosa dev’essere. E certamente, morali a parte, quanto ci fa comodo avere tutto e gratis!!! Ma il rispetto che tanto cinguettiamo? Beh dimostratelo. Comprate la musica se l’amate… anche perché, singoli a parte, non avrete altro modo di ascoltare il nuovo disco dei Flares on Film.

 

Tempo. Questo disco ha un tempo tutto suo. Lento, lo dicono in molti. Che rapporto hai con il tempo??Il tempo è strettamente legato allo spazio, e questo lo sappiamo. Il tempo mi dice dove mi trovo rispetto ad un prima e un dopo. Il tempo è il modo in cui l’esistenza si dispiega, e anche questo è noto. Io cerco di rallentare tutte le cose belle, di godermi le cose che mi piacciono, di respirarle a pieno ogni singolo momento importante. Ma tutto questo forse lo facciamo tutti.

Questo disco è un invito a respirare, stare qui, nel presente e insieme. 

 

Molti dicono che il tempo dentro questo disco sia lento. E nel tempo lento io trovo la ricerca. Nel tempo veloce hai “tempo” solo di pensare alla migliore soluzione, alla più “veloce” via di uscita. Penso sia difficile invece pensare lentamente… credo dunque che questo sia un disco di saggezza… dicci la tua...

Come già anticipi questo è un disco per pensare, un disco da ascoltare perché te lo sei cercato e ti prendi il tuo tempo per dedicartici. Un disco uno a uno. Tu e lui. Questa è una dimensione antica, diciamo “anni 90”, una dimensione di quando prima di internet avevamo pochi dischi e quei dischi eravamo noi stessi e ce li spolpavamo finché non si consumavano. Anni in cui ci dedicavamo davvero a quello che ascoltavamo e la cosa aveva un valore.?Per quanto riguarda la velocità, forse come tu dici è un disco lento, calmo. Per me è un disco notturno, di quelle notti lunghe e placide che ti trascinano in una dimensione intimista a prescindere da quello che fai. Nella “lentezza”, e forse mi ripeto, c’è l’imperativo fermati e contempla il presente in quello che accade.??Le luci scure, questa immagine di copertina senza scritte. Ma anche la voce del disco che sembra non avere un volto unico e una pasta unica. La non identità è diversa dall’anonimato. Ma quale delle due dimensioni è quella dei Flares on Film??Sono da sempre contrario al concetto egoico di identità (che detta così fa ridere un po’) e a quella continua lotta per affermare se stessi sottolineando le proprie caratteristiche. Io lo chiamo prendersi meno sul serio, appartenere ad un flusso, essere un’azione e non una cosa.

L’identità che qui deve venire fuori è quella ogni brano e dell’album tutto. E deve emergere il più pura possibile, nel senso che il brano, in un certo modo, deve mostrare tutta la sua personale essenza. Infatti non abbiamo badato a chi o cosa stesse suonando, cantando, il quel preciso momento. A noi importava soltanto la purezza del messaggio che volevamo dire attraverso quel brano.?credo che l’identità dell’album venga fuori, al di là delle scelte estetiche, attraverso l’atmosfera, l’aria che respiri dall’inizio alla fine del disco.?Ogni voce e ogni strumento viene convocato al servizio del messaggio. Ciò che siamo, ciò che ogni brano può essere ha il dovere di essere frainteso, nel senso che ognuno deve vederci quello che può, quello che è. È come un lasciare le porte socchiuse.

 

Parliamo di questo moniker. Parliamo di film. Questo disco ha un enorme potere immaginifico. Nascono prima le immagini o prima i suoni? Chi è conseguenza di cosa?

Mi piace molto che tu possa cogliere l’aspetto filmico e paesaggistico. In realtà non c’è una vera ricetta da questo punto di vista, mi ritengo abbastanza punk nell’approccio della scrittura musicale. A volte un brano parte da una melodia canticchiata per strada, altre volte mentre ho uno strumento in mano, o da una cosa che leggo. E questo, mi ripeto, è ciò che accade per la musica. In altre parole, il soundscape non è pensato, non cerco qualcosa per evocare un certo tipo di ambientazione, la musica è libera e prende forma da sé. Confido nell’aspetto psichedelico (nel senso etimologico) nell’atto della creazione. La sequenza filmica interviene invece nella scrittura del testo. Spesso infatti, parto da un concetto, un’idea che voglio esprimere e mi immagino storie, circostanze, occasioni che possono essere raccontate in modo semplice, diretto e meno didascalico. Musica e testo si muovono insieme e sono interconnesse, ma il processo formalizzante parte da due strade differenti per poi incontrarsi solo alla fine dove prende una forma unica e compatta.

 

Il disco si presenta di marrone nella sua immagine di copertina. Eppure non ho trovato questo come un suono “marrone”… ci pensi mai a questo?

I pensieri arrivano sempre a posteriori, il senno di poi è più libero delle aspettative. No, non ci avevo mai pensato al marrone, ma ora ci provo.

Prima di tutto partirei da una cosa semplice, il perché di quel colore. Ora, purtroppo, non posso anticipare troppo, ma quel colore è stato scelto per essere in netto contrasto con un altro colore. E qui mi fermo. Nel futuro forse vi sarà più chiaro. ?Tornando a noi adesso, il suono marrone, o rumore che dir si voglia, è un rumore bianco con le frequenze acute tagliate. Un fruscio grave, scuro. Il disco è sicuramente scuro, con le frequenze acute molto misurate e distribuite nello spettro in maniera molto studiata. È un album pacato, notturno e oserei dire addirittura uterino. Ma a dirla tutta, sono stati inseriti numerosi fruscii, rumori bianchi (e marroni) nelle parti ritmiche per esaltare l’aspetto confusivo e non melodico. ?

La seconda traccia è strumentale. Ma più di questo “19” sembra gutturale, primordiale, ancestrale. L’ho legata al suono della terra che affiora come affiora il giudizio universale. Però qui ti lascio carta bianca. Dimmi la tua…

Che bella domanda pazza, meriti una risposta pazza. Il numero 19 da sempre mi lega a questa terra e mi restituisce il senso del perché sono “qui”, il mio esserci. Un numero “mio”, un numero fortunato. Ma non è questo sicuramente il contesto per parlare della mia vita, parliamo del brano. ?tu lo chiami giudizio universale, ma io sono meno “giudicato”, e per me questo brano è alba, è l’inizio di una giornata, la nascita del sole, l’inizio di un qualcosa. Quella scena in cui l’ominide di 2001 odissea nello spazio incontra il monolite. Qui, lo spirito filmico viene fuori nella sua massima espressione. I brani o le parti strumentali in generale, secondo me, sono più liberi, più aperti all’interpretazione e ad una filmificazione (inventiamoci parole).?Ma continuo con un aneddoto: in quei giorni di registrazione io e la mia compagna aspettavamo la nostra bambina, e se ci fate caso intorno a 1:50 si sente una specie di treno che è in realtà il battito cardiaco della mia bambina sentito per la prima volta in una ecografia. Stop

 

Altra curiosità: tra i suoni di “About You” sembra ci sia un bicchiere che a terra rimbalza in modo ostinato… non so come altro spiegarlo. Aiutami a decifrare quei suoni…

La ricerca del suono è da sempre un gioco, e molto spesso un esperimento “mal riuscito” dà risultati inaspettati e godibili. Come dicevamo, abbracciare l’inaspettato può aprire strade sconosciute. Da sempre noi lavoriamo sulla ricerca del suono, e cerchiamo di caratterizzarlo molto, una sorta di laboratorio acustico ricco di esperimenti e prove dove molti strumenti non vengono usati in maniera “normale”. Credo che sia la parte più bella della scrittura di una musica.?Quel bicchiere che rimbalza è un semplice campione di “clava” che puoi trovare in quasi tutte le batterie elettroniche, solo che questa volta passa attraverso un delay con il tempo variabile. Per capirci meglio, Immagina un eco in una caverna che non ripete le urla sempre alla stesse velocità, ma che accorcia e allunga le ripetizioni in un tempo variabile. Avresti lo stesso effetto.?

“Call If You Need Me" per me è il brano del disco. Mi rimanda agli anni ’90, al loro tramonto, all’underground metropolitano espanso fuori misura… da dove nasce?

Non è la prima volta che mi sento dire che è il brano del disco, e anche questa volta rimango stupito da questa affermazione. È sicuramente un brano che amo molto, struggente ed emotivo come piace a me, ma penso anche che sia così intimo da non piacere a tutti. Sono molto contento di sbagliare sempre.?Ora vi spiego passo passo come è nato questo brano per farvi capire il mio modo di pensare la musica. Una delle tante sere passate in casa con gli strumenti in mano, stavo parlottando di musica con la mia compagna e vedevamo alcuni accordi del tema di Laura Palmer al piano. Quei tre accordi che si ripetono sempre per tutto il brano, potrei dire che sono frutto dei primi passi della mia compagna, i suoi primi esperimenti. Un attimo dopo mi è venuta subitissimo la melodia e le parole. Per l’atmosfera mi sono ispirato a quella raccolta lo-fi - chill che si può trovare su YouTube, visivamente c’è una ragazza che ascolta musica in cuffia in camera sua per intenderci. Il testo invece, nella parte centrale, che è quella che spiega un po’ meglio le cose di cui parla, prende ispirazione dal racconto di Carver “se hai bisogno chiama”, mi sembrava la cosa più malinconica che si potesse pensare. Immagina che la prima demo di questo brano è stata fatta a letto su un tablet e con una banale applicazione musicale. Quello che ora è un violino un tempo era uno strumento esotico, ora è decisamente più bello e fa raggiungere a pieno l’apice della malinconia.

 

Il disco si chiude con la stessa voce di “Call If You Need Me” ma i suoni qui parlando di un altrove che è decisamente più italiano. E se non è italiano allora lasciati dire che sembra provenire dal nord dei ghiacci. Le sensazioni danzano irrequiete e io ti chiedo anche qui una bussola…

La soave voce di questi due brani (ovviamente scherzo) è la mia e prende ispirazione da Planet Caravan dei Black Sabbath e alcune cose di Sparklehorse. Questi due brani sono connessi fra loro, come un prima e un dopo,  temporalmente interscambiabile fra loro, di una coppia alla fine. L’ultimo brano “an old photograph” è una rappresentazione di una relazione chiusa e che ti lascia soltanto una vecchia fotografia come se non ci fossero altri ricordi a cui legarsi. È il vuoto cosmico, il non senso futuribile di quello che facciamo. E ho cercato chiaramente, con queste “allegre” premesse, di raschiare il fondo dell’emotivo, della tensione dolorifica, un’arrendevole caduta nella fine, la fine di una relazione, ma anche la fine del disco che spero lasci insoluto l’ascoltatore.

Un arrangiamento spoglio dove il tempo è tenuto in piedi dall’arpeggiatore.

Questa definizione di italiano o nord dei ghiacci invece non la capisco, ed è un peccato non poterne parlare di persona. Cerco di interpretare. Forse per italiano fai riferimento agli accordi, alla linea melodica, alle scelte melodiche e di come si relazionano fra loro gli strumenti.

Qui abbiamo usato per l’arpeggio oscillatori Moog che sono la cosa più calda dell’universo dopo il nucleo delle stelle in netto contrasto con il tappeto di synth decisamente più freddo dal motore digitale e teutonico. Questo crea un divario e una netta separazione fra i due ambienti. Un po’ come l’italiano e lo svedese. Apparentemente siamo uguali, ma in fondo molto diversi. E in quello spazio nel mezzo ci inserisco la mia voce, il messaggio. Una storia infondo che ancora una volta ci riguarda tutti, da nord a sud, est e ovest, oggi e domani, un “e voi allora cosa cercate?”.

 

Questo disco non c’è dentro i normali canali gratuiti. Questo disco posiamo comprarlo, anzi dobbiamo comprarlo. Assurdo vero? Te l’hanno chiesto tutti immagino. Perché questa scelta poco “normale”?

Chiamiamola “disobbedienza civile”. Non essere nei classici canali streaming è una posizione ben precisa che abbiamo preso. Premetto subito che non è una questione economica, lo streaming paga pochissimo e questo è ormai risaputo. Ma la cosa importante per noi è di non finire nel mare infinito dell’internet. Cerchiamo un ritorno all’oggetto e al rapporto con esso, cerchiamo una chiamata, una convocazione. Chi ascolta questo disco, sceglie e si rapporta all’ascolto uno a uno, proprio come si faceva un tempo e come dicevo qualche riga più sopra. Il rapporto così si intensifica e si riempie di un qualche significato tutto personale. Io scelgo e pongo me stesso attivamente. Scelgo cosa ascoltare, quando e con chi. Finire in una playlist streaming come oggi va di moda o peggio ancora non poter ascoltare un album nell’ordine di come viene concepito, finire come sottofondo musicale mentre si fa altro, è veramente mortificante per chi prova a raccontare qualcosa. Aumentano i numeri, ma sono numeri sul mio pc o sul mio telefono, non sono mele. In questo modo perverso di rendere tutto liquido e metaverso, tutto perde di senso, perde valore sia per chi ascolta che per chi produce e scrive. a questo punto preferisco, e Lars Ulrich non me ne voglia, che la gente si scarichi illegalmente i nostri brani. Almeno in questo gesto qualcuno torna a scegliere.

 

Parli di libertà, di lasciarsi andare, parli di istinto. Eppure questo disco è assai ragionato, misurato, ricco di dettagli raffinati al centimetro. Pensi che un poco sia una contraddizione?

Touché, dici il vero, è una vera contraddizione. Quel ragionare, misurare e dettagliare è sicuramente una nostra formula, un qualcosa che contraddistingue da sempre il nostro sound. E fin qui, rimaniamo coerenti a noi stessi. E quello che tu dici ha molto senso, ma parlare del lasciarsi andare in un contesto elettronico avrebbe inesorabilmente al concepimento di un disco dark drone che a quel punto non avrebbe riferimenti di spazio e tempo, ma soprattutto non avrebbe avuto canzoni. Credo fortemente infatti nella “canzone” di beatlesiana formula, quei motivetti che puoi cantare sotto la doccia e che mentre guidi e sei imbottigliato nel traffico ti tornano in mente prima di tamponare qualcuno.?Immagina inoltre se anziché un album musicale fosse stato un testo, secondo quanto tu dici, avrei dovuto per coerenza scrivere così: “jdap9ejfn pa9u hgbd26 n apojòokihgg, dhoija90nbhu65d ahg9ag dhahkhaui soma….xapsu sadhjosi sg ss w8huwho ahsiuafhcdsoèijds cbhdygydbd3”. Affascinante sì, ma ci saremmo davvero capiti? ?Cogli questa mia provocazione

 

Chiudo promesso: del bellissimo video di “The Longest Distance”, del gioco tra Tokyo e Bari, del lavoro che qui davvero diviene ancora una volta un film… credi davvero che la vita sia tutto nel qui ed ora? Questo disco, tutto, ha risposto un poco al che cosa esiste oltre al qui ed ora? Se qualcosa esiste… ?Per risponderti mi tocca evocare la carta pokemon più forte, il potere santo del trascendentale di Kant. Ovvero, breve sunto, non posso conoscere la “cosa in sé”, il trascendente, e nel nostro caso l’aspetto metafisico di un al di là, e non alludo certo al regno dei cieli o dei morti che sia. Per definizione quindi non posso conoscerlo. Quello che mi rimane allora è tutto qui, ora, e se siamo curiosi, il massimo a cui possiamo aspirare è conoscere il nostro rapporto con il trascendente, appunto, il trascendentale.?Per me questa è la libertà. Questo limite mi restituisce alla vita e mi salda nel presente rendendolo mio in modo radicante e intimo. È un invito che faccio a tutti e citando me stesso di un brano del futuro: “questo è un mondo fluttuante che non possiamo controllare”.