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REVIEWSLE RECENSIONI
21/03/2022
Ghost
Impera
I Ghost raccontano il presente con “Impera”, un album politico come pochi, intriso di riff hard rock anni Ottanta e melodie da musical di Broadway.

Un aforisma attribuito a Oscar Wilde suggerisce di stare attenti a quello che desideriamo perché potremmo ottenerlo. Chissà cosa avrà pensato in questi ultimi due anni Tobias Forge, il mastermind dei Ghost, dal momento che Prequelle, l’ultimo disco della band svedese, era incentrato sul concetto di “morte e rovina”, e in particolar modo sulla diffusione della peste  nera in Europa a partire dal 1346, evocata in pezzi come “Rats” e “Dance Macabre”, i cui titoli dicono già tutto.

Di sicuro, Forge (come altri suoi colleghi in campo hard & heavy, vedi anche gli Avenged Sevenfold) fin dal principio è stato tra coloro che hanno scelto di non pubblicare musica finché non ci fossero state le condizioni per poter andare in tour con una certa sicurezza e continuità, tanto che per tre anni l’ultima uscita targata Ghost è stata il l’EP Seven Inches of Satanic Panic, due pezzi dal taglio psichedelico concepiti come se fossero stati registrati nel 1969.

Ovviamente lo iato discografico, nei piani di Forge, avrebbe dovuto essere molto più breve, dal momento che i lavori sul nuovo album – il quinto per la band – erano iniziati nel gennaio 2020, con l’idea di pubblicarlo verso la fine dell’estate. Ovviamente il COVID-19 ha cambiato le carte in tavola, spostando l’uscita del disco di quasi due anni, permettendo però a Forge di lavorare con relativa calma.

Ispirato dal surreale clima politico delle elezioni presidenziali americane del 2020 e dal saggio di Timothy H. Parsons The Rule of Empires: Those Who Built Them, Those Who Endured Them, and Why They Always Fall, Forge ha costruito il concept di Impera attorno al tema dell’ascesa e dell’inevitabile caduta degli imperi, un argomento ricorrente nella storia dell’umanità e ancora una volta sotto gli occhi di tutti alla luce della recente invasione russa dell’Ucraina.

Spaziando tra storia, mistero, esoterismo (la copertina dell’artista polacco Zbigniew Bielak è ispirata all’occultista inglese Aleister Crowley), viaggi spaziali (quelli dei magnati Elon Musk e Jeff Bezos) ed emozioni umane (amore e odio, ma anche morte e trasformazione), Forge – che nel frattempo ha elevato il Cardinal Copia a Papa Emeritus IV – ancora una volta ci regala un album preveggente, che si contraddistingue come al solito per le influenze più disparate, che sia il musical alla Andrew Lloyd Weber, il rock pomposo e teatrale firmato Jim Steinman oppure quello operistico di casa Queen, senza dimenticare l’Hard Rock dei Judas Priest o quel tocco di Heavy Metal maligno alla Mercyful Fate.

Per dare forma a questo variegato affresco sonoro, Forge ha richiamato il team che ha fatto la fortuna di Meliora, il disco che ha definitivamente lanciato la band, ovvero il produttore Klas Åhlund e il veterano del missaggio Andy Wallace, i quali hanno fatto dell’album una vera e propria bomba sonora. Merito anche di uno stuolo di turnisti di lusso, dal momento che per una volta Forge non ha fatto tutto da solo ma si è fatto affiancare dal batterista Hux Nettermalm, il tastierista Martin Hederos e, soprattutto, il chitarrista degli Opeth Fredrik Åkesson, autore di una prova davvero straordinaria per gusto e tecnica.

L’album si apre con “Imperium”, uno strumentale dal sapore cinematico che ricorda molto da vicino “The Ides of March” degli Iron Maiden, e prende il largo grazie alla successiva “Kaisarion” (come il figlio di Giulio Cesare e Cleopatra, conosciuto anche come Tolomeo XV, l’ultimo faraone d’Egitto), caratterizzata dall’urlo iniziale di un Forge in versione Rob Halford e un meraviglioso lavoro di Åkesson alla sei corde. E se il pianoforte ostinato su cui poggia la successiva “Spillways” è puro ABBA, “Call Me Little Sunshine”, se si fa attenzione, ha qualcosa dei migliori Def Leppard.

Si resta negli anni Ottanta anche con “Hunter’s Moon”, il singolo pubblicato lo scorso settembre nella colonna sonora dello slasher movie di David Gordon Green Halloween Kills, e “Watcher in the Skies”, che riesce a fondere con perizia i Whitesnake super patinati di 1987 con l’afflato epico dei Dio di Holy Diver. Si cambia invece decisamente registro con “Twenties”, senza dubbio il brano più politico del disco, un pezzo dalle atmosfere mefistofeliche e influenzato dai musical di Broadway, nel quale Forge si lascia andare a una potente invettiva che fa ancora più impressione se ascoltata oggi, alla luce dell’attuale situazione geopolitica mondiale.

E se “Griftwood” è tutto sommato un brano semplice e lineare che gioca con il riff di “Ain’t Talkin’ ’bout Love” dei Van Halen, Forge dedica tutta la seconda parte del disco alle ballads. La prima è la struggente “Darkness at the Heart of My Love”, rafforzata da un potente coro gospel e una chitarra alla Queen, mentre il finale è tutto sulle spalle di “Respite on the Spitalfields”, ispirata ai delitti di Jack lo Squartatore, un pezzo di quasi sette minuti all’interno del quale Forge incanala tutto il suo amore per gli anni Ottanta, dal rock gotico di Siouxsie and the Banshees e Sisters of Mercy all’AOR dei Def Leppard di “Hysteria” (la canzone, non l’album). Senza dubbio la conclusione migliore per quello che sulla carta si candida a diventare il miglior disco della band svedese.