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REVIEWSLE RECENSIONI
21/10/2019
Opeth
In Cauda Venenum
A quasi dieci anni dalla svolta Progressive, “In Cauda Venenum” vede ormai gli Opeth viaggiare tranquilli verso una seconda giovinezza fatta di tempi dispari, inserti di Mellotron e batterie jazzate, alla continua riscoperta di un passato retromaniaco che ormai non esiste più.

In un paio di interviste concesse durante la promozione di In Cauda Venenum, sia Mikael Åkerfeldt sia Martín Méndez hanno ribadito a più riprese ciò che i fan duri e puri della band in cuor loro hanno sempre saputo ma hanno sempre avuto paura ad ammettere: è praticamente impossibile che gli Opeth tornino a fare Death Metal.

Che ormai il collettivo svedese composto da Mikael Åkerfeldt (voce e chitarra), Fredrik Åkesson (chitarra), Martín Méndez (basso), Martin Axenrot (batteria) e Joakim Svalberg (tastiere) sia più interessato a esplorare il concetto di heaviness come stato mentale piuttosto che come sound vero e proprio, è una cosa ormai chiara da anni. Ritrovatosi senza stimoli dopo la pubblicazione di Watershed (2008) Åkerfeldt – come ha fatto anche l’amico e sodale Steven Wilson – ha trovato nel Progressive nuove motivazioni e, incoraggiato dalla band, con Heritage (2011) ha intrapreso un percorso nel quale alle voci in gowl, ai riff incendiari e ai blast beats sono stati sostituiti voci pulite, interludi strumentali e funamboliche sequenze di accordi. Insomma, il riferimento ora non sono più i Death del compianto Chuck Schuldiner, bensì i King Crimson di Robert Fripp e i Deep Purple di Ritchie Blackmore. Unica costante, una certa fascinazione per le atmosfere creepy tanto care a King Diamond, a cui In Cauda Venenum si richiama fin dalla copertina a opera di Travis Smith. Quella casa che fa tanto Shirley Jackson e quella carrozza con il tiro a due, infatti, sono ben più di un omaggio a dischi come Abigail e “Them”.

Registrato presso i Park Studios di Stoccolma, In Cauda Venenum si apre con “Garden of Earthly Delights”, un pezzo strumentale dal forte sapore cinematografico, tra cori gregoriani e synth à la Stranger Things, che lascia poi spazio a Dignity, con i suoi riff sabbathiani sui quali si appoggiano aperture melodiche figlie degli Uriah Heep. “Heart in Hand”, invece, è parente stretta dei King Crimson di Red, con la chitarra in primo piano, un serrato intreccio di basso e batteria, e un Åkerfeldt calato totalmente nella parte di John Wetton. Le atmosfere cambiano repentinamente con “Next to Kin”, dai richiami melodici orientaleggianti e con un cantato che si avventura fino al falsetto, mentre “Lovelorn Crime” è una ballata in punta di pianoforte. Un bel giro di basso, invece, sostiene “Charlatan”, mentre “The Garroter” ha un piano e una chitarra che eseguono figure chiaramente influenzate dal Jazz. “Continuum”, infine, è un incessante rincorrersi di pieni e vuoti: alle lunghe sezioni bucoliche sostenute da flauti e Mellotron si alternano ritornelli dagli intrecci vocali che sembrano presi di peso da un disco degli Alice in Chains.

Ma non tutto fila per il verso giusto. “Universal Truth”, nel suo affannarsi a far convivere atmosfere Folk con sciabordate Hard Rock, finisce invece per avvitarsi su sé stessa e girare a vuoto, mentre la conclusiva “All Things Will Pass” (nonostante sulla carta non abbia nulla che non funzioni) alla lunga risulta prevedibile e non consegna all’ascoltatore quel finale memorabile e sopra le righe che magari si aspetterebbe da un disco che ha come titolo “il veleno [sta] nella coda”.

Come ha raccontato Martín Méndez, In Cauda Venenum non sarebbe dovuto uscire a così breve distanza da Sorceress e dal live dello scorso anno Garden of the Titans. Inizialmente, la band aveva in programma di prendersi una pausa più lunga del solito; invece, meno di un mese dopo l’ultimo incontro, Åkerfeldt aveva buona parte del nuovo materiale già pronto. E con esso, una novità: dopo 13 album, gli Opeth avrebbero utilizzato la lingua svedese nella scrittura delle linee melodiche e dei testi. Infatti, nonostante sui mercati internazionali sia stata rilasciata una versione in lingua inglese [che è stata utilizzata come riferimento per questa recensione, ndr], la band considera quella svedese come la versione ufficiale di In Cauda Venenum: ecco quindi spiegato l’utilizzo di una lingua franca come il latino per il titolo. Va detto subito che la scelta operata da Åkerfeldt e soci è vincente sotto tutti i punti di vista, dal momento che lo svedese aggiunge al disco un tocco di mistero, portando l’ascoltatore in atmosfere arcaiche e territori musicali inesplorati.

A quasi dieci anni dalla svolta Progressive, In Cauda Venenum vede ormai gli Opeth viaggiare tranquilli verso una seconda giovinezza fatta di tempi dispari, inserti di Mellotron e batterie jazzate, alla continua riscoperta di un passato retromaniaco che ormai non esiste più. Portando avanti il percorso iniziato con Heritage e proseguito con Pale Communion (forse il disco migliore e più compiuto dei “nuovi” Opeth”) e Sorceress, In Cauda Venenum è un disco che non vuole per nulla blandire l’ascoltatore e fa di tutto per essere respingente e inattuale, perso com’è a inseguire le ossessioni di Åkerfeldt. Ma una cosa va detta: nonostante la marea di citazioni disseminate lungo l’album, nonostante i continui richiami al periodo aureo del Progressive 1969-73 e i tanti stili toccati durante i 68 minuti del disco, è soprattutto grazie alle idiosincrasie e alle fissazioni di Åkerfeldt che gli Opeth suonano solo ed esclusivamente come loro stessi. E questo basta e avanza.


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