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REVIEWSLE RECENSIONI
12/03/2024
Judas Priest
Invincible Shield
Come altre band storiche, i Judas Priest potrebbero vivere solo di rendita e di concerti, con la loro attuale formazione “quasi dimezzata”. Ma l’energia del chitarrista Ritchie Faulkner (classe 1980) ha fatto venire ai suoi attempati compagni la voglia di scrivere nuova musica. “Invincible Shield” è una sterile riproposizione di alcuni meccanismi oramai stantii, oppure qualcosa di più? Senza veri e propri eredi, il metal rimane in mano ai suoi antichi idoli.

«Il disco è fantastico. E’ anche banale che io lo dica ma dovevamo fare qualcosa che fosse superiore rispetto al precedente. Quando ho spiegato che si tratta di un lavoro più ‘progressive’ su Internet è successo un gran casino, ma intendevo che al posto della classica struttura strofa-ritornello-strofa-ritornello-assolo-ritornello i brani hanno magari più bridge e parti strumentali. Le canzoni non hanno tutte un andamento canonico, a volte deviano, alla maniera dei Judas Priest degli anni Settanta». (Ritchie Faulkner, giovane chitarrista della storica band)

 

Non per fare per forza felice il buon Ritchie, ma possiamo confermare ciò che afferma qui sopra. Non tutte le strutture delle undici canzoni di Invincible Shield sono lineari e come sempre, malgrado l’apporto molto limitato in studio di Glenn Tipton, gli intrecci e assoli di chitarra sono spesso di gran gusto e danno quel qualcosa in più, che però viene penalizzato nella raccolta dei riff portanti di maggior parte dei brani, che suonano consueti, stantii, autocelebrativi.

Il carisma interpretativo di Rob Halford è strabiliante e sopperisce alla ovvia assenza delle parti più alte e acute, che possiamo accettare da un solido artista di quasi settantatrè anni. La produzione chirurgica del sodale (anche chitarrista dal vivo) Andy Sneap è un’ulteriore sicurezza, unita ad una confezione sontuosa e una copertina ricolma di colori e suggestioni.

 

Confermiamo che la band ce l’ha sicuramente messa tutta per fare uscire un album che fosse almeno degno del precedente e apprezzato Firepower, e chi lamenta ancora la necessità di richiamare quella primadonna un po' altezzosa di K.K Downing, dimentica forse che egli è tornato alla ribalta con un progetto che scimmiotta pedissequamente i classici della band, senza aggiungere nulla di nuovo, né di minimamente creativo. In concerto valgono ancora ampiamente il prezzo del biglietto, anche con le assenze già elencate, ma anche pensando ad un “vuoto di potere” che non ha prodotto eredi degni delle grandi band degli anni 80, come Iron Maiden, Judas Priest e Saxon.

Forse è inevitabile e quel modo di vedere e suonare il metal appartiene solo al passato e non potrà mai tornare. Un giorno (probabilmente vicino) questi gruppi si ritireranno dopo un decennio di tour d’addio e questo amatissimo genere musicale sarà rinnovato e salvato da chi deciderà di guardare oltre, rompere gli schemi e creare qualcosa di nuovo, ma antico nella sua anima più interiore. I nomi ci sono e stanno lavorando per noi e voi, ma in questo frangente, dobbiamo tornare su Invincible Shield.

 

Mi verrà il mal di testa se penso al voto che merita questo album in studio numero diciannove del gruppo britannico. Onesto, concreto e ricco di vigorosi alti e bassi, che spesso si rincorrono anche in una stessa canzone. Le buone idee navigano dentro intuizioni banali e che sanno di già sentito, come nel singolo “Panic Attack”, che dopo una bella introduzione chitarristica e percussioni roboanti stile eighties, riproduce il solito copione incalzante con ritornello impalpabile e citazioni sparse da “Painkiller” (la canzone). Altro riff “vecchio e stanco” in “The Serpent And The King”, mentre Scott Travis picchia e randella, provando a portare a casa il compitino senza affanni. La grinta c’è ma non basta.

La title track regala un sussulto d’emozione nell’intro ma riecco un riffing sostenuto ma nuovamente autoreferenziale. Il ritmo cala nella seguente “Devil In Disguise”, che mostra cadenze ficcanti e un coro beffardo che fa il suo dovere, senza sconvolgere. A dispetto del titolo mefistofelico, “Gates Of Hell” avanza vivace e sostenuta, regalando qualche sensazione piacevole e un coro quasi sbarazzino. “Crown Of Horns” mi riporta a qualche reminescenza di “Angel Of Retribution”, fondendo la melodia con un mood malinconico che funziona mirabilmente. “As God Is My Witness” è l’ennesima cavalcata ben eseguita ma non lascia traccia (migliora dopo qualche ascolto però), mentre l’ennesima introduzione chitarristica in “Trial By Fire” si sviluppa in un brano più articolato e “ombroso”, che lascia buone sensazioni.

Finalmente il riff di “Escape From Reality” non si siede sugli allori passati e la ritmica possente lo valorizza, ma si poteva fare di meglio nel coro, che sembra un po' tirato via. La parte più mediocre del disco si ripropone in una stanca “Sons Of Thunder”, ma il riscatto avviene con il ritmo marziale e fiero di “Giants In The Sky”, certamente uno degli episodi più brillanti dell’album, con un bell’intermezzo acustico che potremmo definire “raffinato” e intenso.

 

Il disco cresce dopo ascolti ripetuti, ve lo concedo, ma la sensazione è che sia leggermente inferiore al suo predecessore e che le idee stiano finendo. La classe è talmente tanta, che anche quando il materiale proposto si volta su sé stesso e sembra riproporre le stesse formule di sempre, l’effetto rimane ancora di leggera soddisfazione, e desiderio di rimettere di nuovo da capo la prima traccia.

Quando non ci saranno più, ne sentiremo la mancanza.