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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
22/05/2019
LUPO
Io l’ho cercato sulla Luna
“Le limitate capacità espressive di questi pseudo autori stanno trasformando l’italiano in una lingua in cui parlare solo di stronzate… per scrivere in italiano bisogna conoscere l’italiano; più in generale per scrivere bisogna conoscere o per lo meno averne l'aspirazione”. (C. Bedogni)

Severo lui, ma solo perché l’ho provocato a dovere… e poi lo sapevo di ricevere indietro una risposta importante. Diretta e sfacciata. Così vanno le cose quando si è liberi dentro.

Ad essere liberi dentro, dicevo, si ha voglia di silenzio perché non si ha paura di trovare il vuoto… ché nel vuoto non si è disarmati e poveri per affrontare il pensiero di sé, lo stesso che delle volte fa così male che non basterebbe una vita per curarne le piaghe. Ma chi è libero dentro ormai ha la pelle dura, le cicatrici chiuse e gli occhi pieni di fantasia per guardare fin dentro le ossa di questo prezioso silenzio.

Chicco Bedogni faceva quel rock alternativo che poi sfocia in una psichedelia quasi urbana che tanti come me ora amalgamano in stereotipate etichette. Non va bene, ma per ora ci basta dato che dobbiamo fare un salto quantico di tempo, in avanti, e ritrovarci con lui che ora si fa chiamare LUPO: solitario e senza band, con i silenzi di un suono acustico che di pretese ha solo quella di esistere composto, timido, sussurrato, che se avesse i piedi ne userebbe solo le punte e se avesse le mani guiderebbe solo le dita contro i tramonti lontani.

LUPO dunque rivoluziona il suono e il suo modo di scrivere e con questo Ep che titola “To the Moon” in cui troviamo 6 nuove scritture di sfacciata matrice folk, di quel canto un poco pop di chi il folk non lo ha vissuto negli anni del cotone povero né in quelli del Mississippi da arginare lungo le sponde di pietra. Lui non lo ha scritto quando si stava chiusi nelle prigioni di ferro e di fango ed era soltanto il blues l’unica voce che avevi per resiste e vivere un giorno di più. Chicco Bedogni il suo folk lo scrive oggi che la società “analogica” - come la chiama lui - è stata abbandonata quanto basta per dimenticarcene valori e morali, suoni e parole. Oggi siamo preda di artisti fai da te che al suono associano i computer e che alle canzoni associano i like dei social.

LUPO è solitario anche in questo, basti vedere la semplicità per niente vanitosa e bisognosa di fascino che ha riversato nel video di lancio di “Slow Big Crunch”… le rare parti corali, che un poco mi spediscono a piedi nudi sulle prateria americane, la produzione di Luca Serio Bertolini dei MDR, quella parte di Giappone che lo ha ospitato nei live e la sua Reggio Emilia che lo culla ogni giorno che passa, sono frammenti di suono e letteratura di vita che sento in ogni angolo di questo bellissimo disco.

A chi è libero dentro non fa paura il silenzio. A voi altri che cercate il rumore, in ogni santo istante della giornata, do una pacca sulla spalla sperando che arrivi presto la resa dei conti. Che ognuno ha da fare una resa dei conti con se stesso… prima o poi… e non sarà il rumore a distrarre il tempo che ci preme alla schiena.

Per anni ho prodotto folk. Ho sempre amato quel certo modo sbarazzino e allo stesso tempo attento di suonare la chitarra. Ho amato soprattutto quel suono che è a metà strada tra il ferro e il calore. Ho ritrovato tutto questo e volevo condividerlo con te. Non so se il suono di questo disco lo hai scelto di proposito, se con naturalezza secondo te viene sempre quando scrivi del folk, o se magari l’hai trovato per strada, strada facendo…

Lo descrivi davvero bene quel suono e quel modo di suonare: stanno lì, tra il serio e il faceto, un po’ improvvisati e un po’ studiati. Non sono un gran chitarrista in effetti ma amo le chitarre acustiche e sulla scelta dello strumento ho impostato la base del mio suono. Nel disco ho usato le mie due jumbo, per me tipologia ideale per il mix di flat e finger picking: una Gibson J45 e una J15 (la sorella in noce massello). Non abbiamo usato effetti per cui ciò che non proviene dalla buca o dal manico delle chitarre è frutto dell’attento posizionamento dei microfoni del bravissimo Luca Serio Bertolini.

Le tracce non sono scevre di errori ed incertezze, peraltro tipiche del folk registrato in epoche in cui la post-produzione era un lusso per pochi. Abbiamo anche inserito due brani suonati dal vivo proprio in ossequio a quel riferimento sonoro.

Un bellissimo gusto di appoggiare la voce, soprattutto sulle chiuse delle frasi. Certe sfumature sono assai pop per un folk inteso come di maniera, pensando ai dischi di quegli anni. L’incontro è decisamente miracoloso ma forse appena distante da quella certa cultura di fare canzone. Non trovi?

Colpito! In effetti il mio background culturale non è quello di un autentico cultore del genere. Questi cantati hanno dietro non solo il folk ma anche anni di ascolto di prog rock inglese ed italiano anni '70, i cantautori nostrani, Bowie, Joy Division, Bauhaus, Serge Gainsbourg e tanta musica USA anni 90.

Mi sento di dire che non si tratta di un disco di genere ma di una breve raccolta di ballate di ispirazione folk.

Premetto che non conosco bene l’inglese e che quindi non posso avventurarmi troppo tra i tuoi testi che sento cantare. Ma ho l’impressione che ci sia poco della vita di oggi o che, meglio ancora, attraverso il passato di una qualche forma di emarginazione, tu possa codificare quello che accade oggi agli uomini. Non è così?

Sì, come negli arrangiamenti così anche nei testi e nelle storie che racconto il pensiero è rivolto ad un passato prossimo che non so identificare se non come “l’epoca analogica”. Rispetto agli ultimi anni di Pavese o a quelli del viaggio in Italia di Alan Lomax non vedo oggi una significativa evoluzione esistenziale per l’uomo.

Il folk penso che sia uno di quei generi musicali che non affronti ma che hai dentro… si è folk e non si fa folk. Il risultato di questo Ep è davvero ricco di peso poetico. Ti sei mai chiesto se in questa emigrazione artistica, non hai raggiunto in fondo la tua vera natura?

Questo è in effetti il dubbio che mi assilla da quanto è uscito il disco. Ho in mente di produrre un secondo capitolo di questa raccolta, votato a sonorità più elettriche e ritmate, ma i pezzi che mi escono, anche se suonati con una solid body, sono sempre di matrice folk.

Direi proprio che con questo genere non ho ancora finito.

Ho anche trovato tra le righe di questo lavoro una voglia immensa di ridefinire la corsa contro il totale rumore effimero che viviamo addosso ogni giorno. Non è così?  

Sì, assolutamente: saranno gli anni che passano ma se da adolescente impazzivo per il noise ora ho bisogno di pause e silenzi. Come nella letteratura, anche nella musica cerco una scrittura asciutta, diretta e priva di fronzoli.

E quindi non posso non chiedertelo: cosa pensi che sia questo mondo oggi? Musicalmente parlando… e non andare né in Giappone né in America. Fermiamoci al pop di casa nostra…

Non vorrei darmi troppa importanza anche perché io la musica italiana di oggi la conosco poco. Non ascolto l’indie nostrano se non per caso quando la radio, che accendo ogni tanto in macchina andando al lavoro da Bologna a Reggio, me ne sbatte un po’ addosso. La mia impressione è che la maggioranza dei musicisti che si sono messi a scrivere in italiano dovrebbe smettere subito. Le limitate capacità espressive di questi pseudo autori stanno trasformando l’italiano in una lingua in cui parlare solo di stronzate. Quasi nessuno oggi è in grado di cantarci in modo bello cose serie: mancano sia il messaggio che la bellezza espressiva. Per scrivere in italiano bisogna conoscere l’italiano; più in generale per scrivere bisogna conoscere o per lo meno averne l'aspirazione.

La Luna per chiudere. Per chiudere lasciami guardare la Luna. Un porticato di legno, la montagna alle spalle, un bicchiere e una paglia. Lasciami guardare la luna. Quanta poesia urlata, nascosta, scritta e poi messa a fuoco. Lasciami anche seguire un concetto metaforico - ma neanche tanto visto che uno degli ultimi dischi folk che ho prodotto, l’ho registrato in una piana di montagna sotto la luna, di notte, d’estate. Questo disco nasce guardando la luna o nasce per guardare la luna?

Recentemente ho cominciato ad aprire i live chiedendo al pubblico di fare lo sforzo di immaginarsi all’aperto, nell’aia di una casa contadina, sotto una grande luna estiva. In quell’aia, che potrebbe essere quella della casa de “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, si ritrovano in cerchio persone comuni che rincasano dopo una giornata di lavoro e tribolazioni. Alla luna intonano lamenti in musica per liberarsi dal male che li attanaglia e nella melodia si legano tra loro recuperando una dimensione di totale fratellanza. Nel canto collettivo scompaiono le differenze, le invidie e i preconcetti: si è semplicemente uomini.

La musica è dunque il mezzo, la luna è il pretesto: al centro del cerchio c’è un disperato bisogno di umanità.


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