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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
12/07/2021
John Mayall
Jazz Blues Fusion
Appena si diffondono le prime note di questo disco ci si trova catapultati nell’entusiasmo, nella gioia della performance. Questi artisti non stanno lavorando o perlomeno non lo stanno facendo nell’accezione con cui spesso si è soliti descrivere il termine lavorare. I loro cuori cantano e danzano, mentre le mani incoraggiano amabilmente gli strumenti a produrre il frutto delle loro virtù.

Il magnifico scatto fotografico di Steve Katleman, utilizzato per la copertina di Jazz Blues Fusion, ben incarna il contenuto di questo capolavoro live del Padrino del British Blues, l’incredibile John Mayall. Sì, perché in quest’immagine scura, in bianco e nero, sembra, di primo acchito, che regni la confusione, con musicisti e contorni indefiniti. Nella realtà, analizzandola attentamente, si vede, si respira la magica atmosfera di un concerto, con tutti gli artisti pronti e felici di poter dare il meglio di se stessi e, soprattutto, gioiosi di sentirsi altamente apprezzati, adorati, dal loro “datore di lavoro”. Mayall non manca mai, infatti, durante le varie canzoni in scaletta nello show, di citarli a uno a uno, con voce stremata e soddisfatta.

Effettivamente, da eccezionale conoscitore della musica dal vivo, il saggio John non si è mai fermato all’ordinario. Ha condiviso il palcoscenico con personaggi stratosferici, da Clapton a Peter Green, passando per Mick Taylor, Walter Trout, Buddy Whittington e stiamo solo parlando di chitarristi, oltretutto tralasciandone altri fenomenali…se poi aggiungiamo vari virtuosi del proprio strumento come John McVie, Greg Rzab, Dick Heckstall-Smith, Hughie Flint e Joe Yuele non possiamo che renderci conto di quanto i Bluesbreakers siano stati una fucina di talento in cui ogni interprete ha sempre potuto dare il meglio e brillare all’interno dell’ensemble.

“Godfather” John è comunque sempre riuscito a staccarsi dal passato: la macchina della sua musica non si è mai inceppata e soprattutto è stato un pilota provetto, non ha mai guidato guardando nello specchietto retrovisore, ma si è lanciato verso nuovi territori e nuove sfide. L’album di cui si sta parlando ne è fulgido esempio.

Prima di addentrarsi specificatamente nell’opera occorre sottolineare come anche il titolo già evidenzi ciò che sgorgherà nei quarantacinque minuti di musica. L’intreccio di più generi musicali conferma l’abilità del padrone di casa e denota la spiccata capacità d’improvvisazione che si respira nei sette pezzi in scaletta, tratti da tre serate tenutesi a Boston - Music Hall, 18 Novembre ’71- e New York - Hunter College, 3-4 Dicembre-. Il filo conduttore, oltre ai temi già citati, è la voglia di rinnovare gli stilemi consueti a questo tipo di rappresentazione: è infatti precipuo evidenziare che tutte le tracce scelte sono opera di Mayall, nessuna cover, rivisitazione o rilettura, per un approccio innovativo e originale a quei tempi, dove poteva quasi sembrare sacrilego evitare qualsiasi sguardo al passato.

L’inizio è quanto di più azzeccato, con un fresco “twelve-bar blues” dal nome Country Road, pregiato apripista per quel treno impazzito sul punto di deragliare creato dall’armonica di John. Qui cominciano a rivelarsi i formidabili compagni d’avventura. La chitarra di Freddy Robinson (Jimmy Rogers e Bobby Bland fra le sue altre collaborazioni) si insinua leggera per poi dominare gran parte del brano, con una limpidezza e un fraseggio da manuale, come acqua fresca da una fonte di montagna. I fiati di Clifford Solomon e Blue Mitchell fanno un lavoro di fondo pazzesco, insaporendo il motivo di jazz, come solo loro sono in grado di compiere, dall’alto di un’arguta esperienza in quel campo, e riprendendo, in alcuni frangenti, il riff della celebre Outskirts of Town nell’arrangiamento fatto da Quincy Jones per Ray Charles.

Inizia così il viaggio della truppa che annovera pure lui, “The Mole” Larry Taylor, adorato bassista dei Canned Heat, vera locomotiva del ritmo. Traccerà traiettorie indelebili con il suo compare del ritmo Ron Selico, famoso per aver suonato anche per James Brown, Frank Zappa e Bobby Womack. Proprio le percussioni di Selico esaltano uno degli highlights dell’album, quegli otto minuti di Exercise in C Major For Harmonica, Bass & Shufflers, autentica escursione nell’improvvisazione, dove Taylor carezza il suo basso e la french harp di Mayall si incunea sinuosa tra i ricami di Robinson. Invece Good Times Boogie consente all’accoppiata Solomon-Mitchell di giganteggiare rispettivamente con sax tenore e tromba.

John Mayall è onnipresente: ha pensato a liriche semplici, fugaci, ricche di facili metafore che si prestano perfettamente allo stile musicale che sta rappresentando, in cui la parte strumentale è preponderante. Si esibisce anche alla chitarra ritmica in tutti i pezzi, a volte nello stesso tempo dell’armonica. Solo nella vaporosa Dry Throat compare un piano elettrico magistralmente incastonato nella struttura della canzone, forse fra tutte la più ammiccante al rhythm and blues, insieme alla più uptempo Got To Be This Way. Quest’ultima è un’altra perla. E’ la composizione con cui l’ingegnere del suono Eddie Kramer, un nome e una garanzia per quel periodo -basti pensare alle sue collaborazioni con Hendrix, Traffic e Led Zeppelin-, conclude il live ed è pure l’ennesima possibilità per mettere in luce il meccanismo ben oliato della band. In particolare è da favola il “call and response” tra John e Blue Mitchell che chiude divinamente la traccia.

“Cerco sempre di scegliere canzoni lungo le quali gli artisti possano davvero brillare.”

La filosofia di John Mayall ben si incarna e riecheggia in questa sua affermazione. Un vero maestro il cui segreto è sempre stato abbinare alle sue innate doti la voglia di imparare e suonare sempre qualcosa di nuovo, facendo respirare aria fresca in ogni album ed esibizione dal vivo. Tutto ciò da più di sessant’anni, incredibile a dirsi, e fatto con un'umiltà e generosità che stringono il cuore.

“John Mayall è un musicista veramente in gamba, che sa suonare il blues fino in fondo.”  

B.B. King


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