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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
03/11/2023
Live Report
JazzMi 2023
JazzMi è giunto quest'anno alla sua ottava edizione e, nelle sue tre settimane abbondanti di concerti sparsi in tutta la città, ne abbiamo seguiti alcuni dei meno classici. Troverete quindi i racconti dei live di Binker Golding, Majid Bekkas, Shabaka Hutchings e Hamid Drake al Santeria, Jaga Jazzist ai Magazzini Generali ed infine, al Teatro della Triennale per la serata di Halloween, il Francesco Cavestri Trio, Dan Karate e i Sun Ra Arkestra.

Sono stato al JazzMi anche quest’anno, che è giunto all’ottava edizione ed è ormai divenuto un appuntamento fisso per gli amanti del genere e non solo, visto che ogni volta la proposta è molto ampia per genere e declinazione. Difficile seguirlo nella sua globalità, visto che parliamo di tre settimane abbondanti (quest’anno dal 12 ottobre al 5 novembre) e di decine di concerti, molti dei quali in contemporanea in diversi luoghi della città. Alcuni vengono replicati, certo, ma la maggior parte rimane ad atto unico, così che scegliere diviene l’unica (e spesso dolorosa) opzione possibile.

L’edizione odierna è stata benedetta da nomi di primissimo livello come Gilberto Gil, Marcus Miller e Cory Henry, ma io ho preferito concentrarmi su cose un po’ meno classiche e meno aderenti agli stilemi del genere. Qui di seguito una carrellata sintetica dei concerti che ho visto; conscio, appunto, che si tratta di una goccia di un mare decisamente più vasto, che meriterebbe di essere esplorato il più possibile.  

 

Binker Golding è alla prima partecipazione al Jazzmi in veste solista, stessa cosa per Moses Boyd, il suo partner nei Binker & Moses, che si esibirà pochi giorni dopo all’Anfiteatro della Martesana.

Il sassofonista inglese ha pubblicato lo scorso anno il secondo disco a suo nome, Dream Like a Dogwood Wild Boy, le cui canzoni costituiscono di fatto l’unico ingrediente del set di questa sera.

L’immagine di copertina, con lui di spalle immerso in un paesaggio di campagna, sintetizza appieno la serenità evocata dalle musiche proposte durante l’ora abbondante che dura la sua performance. C’è il Jazz, chiaramente, ma le note ricamate dal sax, appoggiandosi al gran lavoro di tessitura degli altri strumenti, vanno a pescare da una tavolozza di generi ben più ampia, che comprende anche il Rock e il Blues, un elemento, quest’ultimo, ben presente nei fraseggi chitarristici di Billy Adamson.

Il resto della band (Sam Jones alla batteria, Daniel Casimir al contrabbasso, Sarah Tandy al piano) si pone egregiamente al servizio dello strumento principale, ma non recita certo un mero ruolo da comprimario: non solo perché le tessiture ritmiche, pur scorrevoli, sono tutt’altro che banali, ma anche perché ciascun musicista avrà nel corso dello show un momento personale in cui salire in cattedra.

È un concerto piacevolissimo, godibile e assolutamente non da intenditori, visto che le composizioni di Golding, pur nella loro lunga durata, contengono diversi temi orecchiabili che, ripetuti più volte, contribuiscono a rendere fruibile l’ascolto.

Colpisce anche l’attitudine positiva dei cinque e la simpatia del loro leader, che a fine set, avvisato che restano solo tre minuti prima di lasciare il palco, invita i presenti a comprare i suoi due dischi (“Sono entrambi in vendita da qualche parte qui dentro”) e, “se proprio non avete così tanti soldi, perché so che la situazione al momento è dura, comprate solo l’ultimo, che è quello che in questo momento mi rappresenta di più”.

Serata riuscitissima, peccato solo per il pubblico non troppo numeroso, un dato inspiegabile per un nome di tale caratura.

 

 

 

Sabato 21 novembre al Santeria di viale Toscana è di scena un trio d’eccezione composto da Majid Bekkas, Shabaka Hutchings e Hamid Drake. Ed è proprio il batterista, prendendo la parola a metà concerto, a spiegare al pubblico che la parola “santeria” ha a che fare con quella commistione tra la religione cattolica e quella yoruba, che divenne la principale pratica spirituale degli schiavi africani nella zona di Cuba, Porto Rico e Brasile, e che fu portata anche negli Stati Uniti, principalmente in Florida e California.

Fa il paio con un brano che Bekkas aveva cantato poco prima, che Drake spiega rappresentare l’unione di tre diverse preghiere, una musulmana, l’altra ebraica, la terza buddista, tutte aventi a che fare con l’idea che la dimensione molteplice della realtà acquista agli occhi di Dio la sua dimensione di universale unicità.

È un messaggio che, anche mettendo insieme tradizioni diverse, può dire molto in risposta ai venti di guerra di queste ultime settimane, e che più in generale ci trasporta all’interno di un concerto dove, prima ancora che l’aspetto puramente tecnico, è l’anima dei tre musicisti balzare in primo piano e a generare la comunione col pubblico.

Un’anima che è poi la risultante dell’incrocio tra tre background differenti, quello di Hamid Drake e di Shabaka, più legato al Jazz contemporaneo nelle sue numerose incarnazioni, e quello del musicista marocchino, che nel corso della sua lunga carriera si è fatto divulgatore della cultura Gnawa, facendola però interagire con le fonti più disparate e mettendola in comunicazione con la tradizione afroamericana, come anche l’ultimo disco Magic Spirit Quartet ha dimostrato.

Il concerto è un viaggio ipnotico e coinvolgente nel mondo dei tre, con le canzoni di Bekkas a fungere da struttura portante, e Hutchings e Drake ad improvvisarvi sopra, arricchendo coi loro ricami le tessiture già affascinanti portate avanti dal primo.

C’è tantissimo guembri (il particolare liuto dei Gnawa, tre corde e cassa di legno rivestita di pelle di cammello, dal suono più simile ad un basso che ad una chitarra), un po’ di kalimba, mentre Shabaka predilige molto di più i flauti al suo tradizionale sassofono: una scelta che può senza dubbio essere letta come in linea con le sue recenti dichiarazioni secondo cui si è reso conto di avere in qualche modo esaurito le possibilità dello strumento, ma anche con il fatto che i vari legni che porta in scena si integrano maggiormente con la proposta musicale del trio. Per quanto riguarda Drake, i suoi ritmi sempre cangianti sono garanzia di dinamicità e movimento, in un’esibizione decisamente molto fruibile, che nelle fasi finali si tinge di Afrobeat e vede tutto il pubblico a battere le mani e a scandire le incomprensibili parole cantate da Majid, assolutamente irresistibile per energia e simpatia.

È anche questo il bello del Jazzmi, che ogni tanto ci sia l’occasione di uscire dalla propria comfort zone, e si possa ugualmente fare l’esperienza di un’autentica bellezza.

 

 

 

Il giorno dopo ci spostiamo ai Magazzini Generali per i Jaga Jazzist, cambiando totalmente genere e contesto. Il collettivo norvegese ha la parola “Jazz” nel proprio monicker ma risulta del tutto indefinibile ed eclettica, muovendosi su territori in apparenza lontani tra loro ma riuscendo a creare qualcosa che potremmo paradossalmente definire “di facile presa” (chiarendo ovviamente che si tratta di un eufemismo).

Sul palco sono in otto, il batterista Martin Horntveth, che svolge anche il ruolo di anfitrione, interagendo col pubblico, presentando i brani e svelando alcuni retroscena sulla lunga carriera della band (che come lui stesso ci tiene a comunicare, il prossimo anno festeggerà il suo trentesimo anniversario). Al suo fianco i fratelli Lars e Line, il primo a destreggiarsi con le varie tipologie di sassofono, tastiere, programmazioni e chitarra, il secondo con tuba e flauto.

Il resto della formazione presenta un mix di strumenti tradizionalmente rock (chitarre, basso, percussioni) e fiati, una composizione che ne rispecchia appieno le numerose sfaccettature del sound. Lo show dura due ore e si spazia da composizioni Jazz, presenti soprattutto nella parte iniziale, ad un’elettronica sofisticata tipica di nomi come Four Tet e Floating Points, passando attraverso evoluzioni ritmiche da Math Rock e passaggi articolati che ricordano a tratti il Progressive. Le composizioni sono tutte molto lunghe, raggiungono spesso i 15 minuti, e di conseguenza è facile vedere questi molteplici elementi presenti nell’arco dello stesso episodio.

Nonostante questa varietà non c’è nulla di particolarmente ostico, la presenza di nuclei melodici a lungo reiterati garantisce un’alta fruibilità e quando nel finale il gruppo alza i ritmi, i suoni si inspessiscono e si vira sull’aspetto cinematico, gli animi in platea si scaldano e l’entusiasmo del pubblico si tocca con mano.

Concerto imperdibile, a maggior ragione perché era da almeno dieci anni che non passavano dalle nostre parti. Hanno promesso di ritornare l’anno prossimo per festeggiare adeguatamente il loro trentesimo anniversario: li aspettiamo a braccia aperte.

 

 

 

Il mio personale programma si conclude la sera di Halloween, dove al solito Teatro della Triennale è stato approntato un bill decisamente interessante. Si parte alle 19.30 col Trio di Francesco Cavestri, artista giovane ma dal curriculum già piuttosto nutrito, tra collaborazioni con Paolo Fresu e la colonna sonora di un podcast Rai di prossima uscita. È accompagnato dai bravissimi Riccardo Oliva al basso e Joe Allotta alla batteria (menzione particolare per quest’ultimo, la cui prova mi ha veramente colpito) e si esibisce al piano elettrico, passando ogni tanto alla tastiera ed inserendo qualche sporadica parte vocale. Il repertorio è un misto di brani originali (è appena uscito il primo disco Early 17 ma ce n’è un altro che arriverà a breve) e riletture di artisti anche molto lontani tra loro come Robert Glasper, John Coltrane, Radiohead e Ry?ichi Sakamoto, a cui sono dedicati due brani eseguiti in solitaria. È un Jazz decisamente contaminato, dunque, anche se tutto sommato piuttosto classico, e non mancano momenti di emozionante interazione tra i tre strumentisti.

A seguire ci sono i Don Karate, progetto dell’ottimo batterista Stefano Tamborrino, che ha al suo fianco due musicisti d’eccezione come Pasquale Mirra (vibrafono, già visto più volte in azione coi C’mon Tigre) e Francesco Ponticelli (basso). Il loro ultimo disco, il secondo della loro storia, si chiama Space Foresta e questa sera la maggior parte delle cose suonate arrivano da qui. Si presentano in scena con un look bizzarro, fatto di pseudo kimono, cappelli di paglia di foggia orientale ed ingombranti fazzoletti a coprire il volto. Sono preceduti da una ragazza giapponese che li introduce parlando in giapponese e questo non fa che accentuare l’effetto straniante della proposta. Sul palco ci sono visual evocativi e apparentemente privi di un filo conduttore (scheletri che ballano, un giaguaro che si aggira per la foresta, una parata militare dell’esercito nordcoreano) che accompagnano una performance a volumi altissimi e principalmente incentrata sull’elemento percussivo. Il vibrafono evoca spesso atmosfere che si collegano all’immaginario nipponico, il drumming di Tamborrino ha un incedere incalzante ed ossessivo, il fatto che i tre improvvisino parecchio rende il tutto certamente più riuscito e dinamico rispetto al disco. Occorrerebbe forse un po’ più varietà nel songwriting ma li abbiamo decisamente apprezzati, anche per un’attitudine cazzara e demenziale che personalmente mi è risultata gradita.

Sun Ra non c’è più da trent’anni esatti e lo stesso Marshall Belford Allen, che ha portato avanti l’eredità della sua Arkestra, è ormai troppo vecchio per salire sul palco. Nella sua più recente incarnazione, questa creatura ibrida è vagamente extraterrestre è guidata da Noel Scott (sassofono e percussioni) che ne fa parte dal 1979. Questa sera sono in 12 sul palco, come sempre agghindati con costumi sgargianti e pittoreschi.

Sun Ra è ovviamente il punto di partenza, così come in scaletta ci sono alcune delle sue composizioni più celebri (tra cui quella “Angels and Demons at Play” che ha ispirato anche i Motorpsycho) ma la sua musica è declinata in maniera decisamente più fruibile, nonostante l’ampia presenza di un Free Jazz ricco di dissonanze, soprattutto nella prima parte.

La formazione è fortemente incentrata sui fiati, che interagiscono tra loro sotto la sapiente regia di Scott e che quando suonano insieme creano un potente ed irresistibile wall of sound. Spazio anche per le coreografie, con qualche divertente ballo che vede anche lo stesso Scott esibirsi in improbabili capriole. È uno show pittoresco e divertente, sufficientemente sofisticato a livello di suoni e partiture, con dei momenti vocali in cui si è sconfinato nello standard, ed anche leggermente paraculo (la citazione di “Nel blu dipinto di blu” si sarebbe potuta evitare, anche se le improvvisazioni che l’hanno corredata sono state piacevoli).

Adesso saranno in tour in America ma speriamo di rivederli presto. Nel frattempo, si può ingannare l’attesa con l’ultimo Living Sky, uscito esattamente un anno fa.