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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
03/04/2018
Moonface
Julia With Blue Jeans On
Basta poco per innamorarsi di queste dieci canzoni che, soprattutto se ascoltate in cuffia, esprimono una forza emotiva stordente, nascosta però fra le pieghe di un ordito musicale all'apparenza fragile, e la cui percezione, almeno durante i primi ascolti, è quasi esclusivamente istintuale

Julia With Blue Jeans On è la terza fatica di Moonface, moniker sotto il quale si nasconde Spencer Krug, autore, cantante e polistrumentista canadese, al secolo meglio conosciuto come leader dei Wolf Parade. Un ritorno sulle scene agli antipodi rispetto al precedente ibrido Heartbreaking Bravery (2012), album partorito in condominio coi finlandesi Siinai, dal momento che Julia With Blue Jeans On è un disco essenziale, minimalista, concepito esclusivamente per pianoforte e voce, particolare, questo, che lo rende un'opera non facilmente assimilabile, soprattutto a chi non è aduso ad atmosfere intimiste e raccolte.

Tuttavia, basta poco per innamorarsi di queste dieci canzoni che, soprattutto se ascoltate in cuffia, esprimono una forza emotiva stordente, nascosta però fra le pieghe di un ordito musicale all'apparenza fragile, e la cui percezione, almeno durante i primi ascolti, è quasi esclusivamente istintuale.

Eppure, ogni volta che Julia With Blue Jeans On finisce nel lettore, il disco cresce, prende forma, dispiega in modo chiarissimo i confini entro cui si muove un'anima musicale sensibilissima, poliedrica e recettiva.

Dieci brani, per la durata complessiva di 48 minuti, il cui merito è soprattutto quelle di essere semplicemente belle. Quando poi si asciugano le lacrime che velano gli occhi di emozione e si cerca di mettere dei punti fermi, le canzoni che compongono Julia disvelano un cuore delicatamente pop (che forma potrebbe prendere questa scrittura se fosse supportata da arrangiamenti e strumentazione più corposa?), che fa pensare a Ben Folds (November 2011) o al Rufus Wainwright di All Days Are Night, ma che finisce per dispensare anche una linfa musicale più colta, quella che circola dalle parti di Olafur Arnalds o Joep Beving (il tocco al piano di Krug è notevole, come dimostrano alcune code strumentali in odore di classica).

Difficile trovare il meglio di un disco in cui ogni singola nota è in grado di produrre palpiti e suggestioni. Se fosse, tuttavia, indispensabile avventurarci nella scelta di citare qualche brano, indicherei la dura requisitoria introspettiva di Barbarian ("I am a barbarian sometimes"), la suite di Dreamy Summer e la dolente title track, che sfocia in un crescendo finale da pelle d'oca. Autunnale e intenso, un grande disco.