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THE BOOKSTORECARTA CANTA
La nobiltà vista da vicino
Claudio Sottocornola
2019  (Marna)
REFLECTIONS
all THE BOOKSTORE
12/04/2019
Claudio Sottocornola
La nobiltà vista da vicino
“Viviamo un’età di declino e degrado in cui ci si attacca allo shopping, alla modificazione del corpo, ad una ritualità – come quella del turismo di massa e dei talk show televisivi – superficiale e materialistica”. (C. Sottocornola)

Ve lo preannuncio. Sarà una lunga intervista. Sarà un’intervista intensa e ricca di cultura e intelligenza. Saranno risposte ricche di nobiltà. Sarà un parlarsi da vicino, sarà un respirasi addosso. Sarà un capire profondo… che ormai significa sforzarsi, e tanto anche; che ormai significa usare del tempo per restare fermi sul posto (un vero paradosso oggi), per star fermi su qualcosa che è stato scritto, che è stato detto e che ci arriva con parole poco convenzionali (direbbe qualcun altro), con parole altre visto che ormai la nostra convenzione di linguaggio si attesta su quattro rime baciate per chiudere la strofa e sentirci poeti con metafore scolastiche e colorate, se tutto va bene, da poche e sterili assonanze di una banalità immediata e spesso anche volgare. Questo, e non lo penso solo io, è il cliché che affolla la grande canzone d’autore, quella che viene premiata dai GIORNALISTI e persino dall’eterno Sanremo. Siamo in un declino che ormai non ha freni inibitori ed il mio sfogo trova agio e accoglienza nel confronto e nell’incontro con Claudio Sottocornola, scrittore, ordinario di filosofia a Bergamo ma anche storico della teologia, studioso di ciò che si ritiene essere popolare… e poi docente di materie religiose, letterarie, docente di scienze dell’educazione e infine, non ultimo, amante e cronista di questo eterno miracolo che è la musica. Ed è attraverso la musica che Sottocornola si ferma ad osservarsi, ad osservarci, per poi tracciare una sagoma di questa bella gente che stiamo diventando.

“Purtroppo, ci vorranno generazioni perché si recuperi il senso di una bellezza più profonda, non banale, e il prezzo da pagare per questo, se mai avverrà, sarà elevato”. (C. Sottocornola)

Si intitola “Saggi Pop. Indagini sull’effimero essenziale alla vita e non solo” edito da MARNA Edizioni. È un libro che sulle primie, a dirla tutta, si presenta con un fare austero nell’estetica, pesante in senso fisico e demotivante con le sue 556 pagine larghe e obese di tanti caratteri, sempliciotto nella copertina quasi demotivante, vista l’eterna materia ampiamente trattata ovunque. Almeno questa è l’apparenza. E, come ormai sappiamo, l’apparenza oggi è tutto quel che conta, unica autorità, spesso incontrastata. Ma andiamo oltre, noi che sappiamo fare altro oltre al farci drogare dalle apparenze, altro oltre le storie sui social, altro oltre allo zapping tra grandi media per poi commentarli da tastiere con le prime frasi fatte che raccogliamo dai bar: “Saggi Pop” si rivela un libro importante che per lunghi tratti dovrebbe star fisso sui banchi di scuola, lui che le scuole le raggiunge, lui che parla ai ragazzi, lui che h tradotto le sue lezioni in concerti. “Saggi Pop” è come uno schiaffo che potrebbe svegliarci dal torpore della quotidianità vissuta come pecore della becera omologazione.

 “La mia impressione è che sempre più – anche in quelle che appaiono reazioni e manifestazioni di massa – siamo eterodiretti e manipolati da un sistema che, con modalità progressivamente scientifiche, ci fa credere di agire liberamente laddove tende invece a indurre in noi reazioni pilotate sulla base del meccanismo stimolo-risposta. E questo vale per la formazione delle opinioni politiche, ma anche del gusto e degli stili di vita: invece di coltivare profondi e personali interessi estetici corriamo dietro alla ‘Dama con l’ermellino’, perché ne parla la televisione…” (C. Sottocornola)

“Saggi Pop” è un libro che si compone di suoi scritti e pubblicazioni, sue interviste e sue analisi alle canzoni che hanno fatto storia… ma poi troveremo anche sue lunghe disamine sociali in cui si rende chiaro ed evidente - direi anche in modo disarmante - chi siamo e cosa siamo diventati, fotografie anche sapientemente illustrate di quel che accade nel sistema educativo, mediatico, politico e di costume. Sottocornola ci mette a nudo senza che noi si possa fare un passo contro, lo fa con mestiere di studioso e con un linguaggio competente, elegante, sicuro e per niente scontato. E scorrono così 556 pagine…

“La nobiltà va cercata nelle vite nascoste che non sono scese a patti col potere mediatico e la distopica videocrazia in cui viviamo, anzi in certo qual modo la ignorano e – senza neanche saperlo – passano oltre”. (C. Sottocornola)

Però mi chiedo: cosa sta diventando bello, cosa sta significando una parola come bellezza e cosa stiamo facendo di nobile per alimentare la cultura ed il nostro modo di percepirla? Insomma: cosa sta accadendo alla nostra educazione?

Claudio Sottocornola mi risponde, lui non giudica ma misura, non commenta ma descrive. E non è un demonizzare soltanto, ma anche un rilasciare strumenti, un fornire chiavi di lettura, un fare cronaca dal punto di vista quotidiano. E nel Santo Pop di questa lunga storia italiana c’è anche tanta bellezza che merita di essere sottolineata e ricordata, sono alte e ben stabili tante colonne finemente ricamate che hanno dato lustro ad una tradizione che ci invidiano da tutto il mondo.

Ho di nuovo imparato molto. Ho tra le mani un’opera che avrò cura di divulgare, con le piccole parole che conosco, con la forza che mi viene concessa di mettere in campo. Sarà un’eterna lotta, la mia, destinata alla sconfitta certa, demolita e resa polvere dalla stupidità commerciale e annichilita dal mestiere dei tanti GIORNALISTI che celebrano il comun pensare per sentirsi ancora parte della giostra mediatica.

Siamo schiavi della televisione, dell’apparire, dei social… siamo schiavi, come lo erano quelli di pelle nera con le catene ai polsi e alle caviglie.

Fare domane su un simile lungometraggio di società, storia e cultura è davvero un’impresa ardua. Direi impossibile. Eppure, devo provarci cercando di contenermi e accontentarmi. Ci sono parole che ho catturato e che ritrovo protagoniste in questo libro. Così ho avuto modo di approfondirle. Una di queste è maschere: dalla Grecia all’ipocrisia di oggi, dalla scena del teatro ad una sorta di equilibrio tra l’essere e l’apparire. Quanto bisogno abbiamo oggi di ricorrere alle maschere? E di che tipo di bisogno stiamo parlando?

Nel teatro greco la maschera era uno strumento che, amplificando la voce dell’attore in assenza di microfono, ne delineava anche i tratti caratteriali, tanto da essere definita “persona”. Tale origine evoca un concetto di persona come cassa di risonanza o amplificazione, quindi come rivelazione dell’essere, di cui la maschera è in qualche modo espressione iconica. Essa ha perciò in sé una sostanziale ambivalenza: è manifestazione ma anche occultamento (rivela o nasconde?). La caratterizzazione, per esempio di un soggetto pubblico, può diventare infatti cliché, stereotipo, luogo comune. D’altro canto, la maschera o persona, in quanto situata e prospettica, esprime una condizione universale: ognuno è una particolare manifestazione del tutto, di cui, per esempio, il volto è tramite, e dunque porta d’accesso all’essere. Ma se, come accade in molti soggetti mediatici, la persona si caratterizza in modo esacerbato ed eccessivamente paradigmatico, quasi caricaturale, essa perde autenticità e acquista fissità, diventa “personaggio” variamente accessoriato e non è più “persona”, come totale trasparenza all’essere, e quindi filtro, medium, veicolo, ma quasi impedimento a una sua intelligenza più profonda. Il “personaggio” ha senso solo come simbolo che traduce la “persona”, come logo al suo servizio e, quando uno sguardo è illuminato, non ha più ragion d’essere o, meglio, è totalmente identificato con la “persona” stessa, e questa diviene una particolare epifania del senso o fondamento. Ma aveva ragione Pirandello quando si lamentava: “Nella mia vita ho incontrato molte maschere, e poche persone”.

Si stava meglio quando si stava peggio? Per restare sul tema ho come l’impressione, e in un certo senso mi pare che lei lo scriva più volte, che a questo progresso sia anche associato un caos maggiore e quindi un bisogno sfacciato di riferimenti e di simboli. Insomma: ho come l’impressione che quando si aveva poco o niente, di contro, si era individui più formati, con maggiore personalità e quindi più autosufficienti o anche in un qualche modo immuni da spot pubblicitari o anche liberi dal bisogno di avere altro a cui appoggiarsi. Non è così?

L’attuale vuoto valoriale, il feticismo di merci e consumo, la mancanza di appartenenze strutturanti produce un indebolimento di società, antropologia e costume. Come il medioevo aveva estremo bisogno di feticci, reliquie, eventi prodigiosi e santi patroni per coltivare una religiosità popolare ancora barbara e primordiale, molto concreta e spesso superstiziosa, il contemporaneo ha bisogno di oggetti come status symbol, di idoli mediatici effimeri e inconsistenti, di voyerismo esistenziale e sociale, di parodie carnevalesche di ciò che è cultura. Viviamo un’età di declino e degrado in cui ci si attacca allo shopping, alla modificazione del corpo, ad una ritualità – come quella del turismo di massa e dei talk show televisivi – superficiale e materialistica. Le prove interiori del passato (guerre, povertà, fatica del quotidiano), educavano a una interiorità più nobile e profonda.

Un’altra parola che ricorre poco ma lo fa con grandissima forza è bellezza. Il saggio relativo alla bellezza è assai importante dunque le giro di nuovo la domanda: la bellezza, secondo lei, ci salverà? E in che modo?

Spesso mi stupisco di come oggi il termine sia abusato. E tuttavia ciò è rivelativo del fatto che, data l’estrema difficoltà ad accordarci, per esempio, su ciò che è bene o vero, il valore della bellezza, come voleva Platone, sia il primo e più evidente, e dunque più facilmente condivisibile. Eppure, proprio nell’imbarbarimento dell’idea di bellezza si manifesta con più evidenza il declino della nostra civiltà occidentale. Se il pop – come contrazione di popular – ha generato nel ’900 aspetti culturali fondativi del nostro tempo, che caratterizzano il secolo e vanno ormai incontro ad una giusta storicizzazione (il grande cinema e giornalismo, la musica e la televisione, ecc.), il nuovo millennio vede un degrado della cultura mediatica (sia tradizionale che social), come specchio di una società allo sbando, quasi esclusivamente finalizzata al principio di piacere e consumo. Rivelativo in proposito è “La grande bellezza” di Sorrentino, anche se la dimensione tragica che caratterizza il film è ormai estranea a una cultura di massa sempre più banale, materialistica e light. La bellezza che le masse tendono oggi ad apprezzare è infatti quasi esclusivamente quella biologica, associata al culto della giovinezza e della forza: come sostiene lo scrittore Michel Houellebecq, si tratta di una visione nazista. Oltretutto, anche banalizzata ed edulcorata nelle formule da spot dove trionfa una sorta di paradiso delle merci, popolato da coppiette, bambini felici, adulti sorridenti e operosi perfettamente integrati e funzionali al sistema. Kant sosteneva che il giudizio estetico comporta “il libero gioco delle facoltà del soggetto”. Ma è chiaro che tale gioco, a fronte del radicale impoverimento di tali facoltà nell’attuale contesto antropologico, risulterà banale e scontato rispetto al passato, proprio come il gioco di un maldestro calciatore non potrà mai competere con la genialità di un Maradona o di un Pelé. Mi colpisce – e lo riferisco spesso – constatare, per esempio agli esami di maturità cui assisto come docente, quanto i nostri ragazzi fatichino a emozionarsi di fronte alla grande poesia del Novecento: balbettano qualche nozione, illustrano qualche passaggio, ma non riescono, perlopiù, a vivere una grande esperienza estetica, come vorrebbero invece i nomi di Luzi, Montale, Pasolini, Ungaretti, Pavese e tanti altri. Ma i loro testi, che esprimono una complessità maggiore a quella cui ci ha abituati la cultura mediatica contemporanea, esigerebbero studio e disciplina, rigore e dedizione, in una parola, profondità, quella che oggi manca dai palinsesti della cultura di massa, cui anche la canzone pop, rock e d’autore è piegata. Purtroppo, ci vorranno generazioni perché si recuperi il senso di una bellezza più profonda, non banale, e il prezzo da pagare per questo, se mai avverrà, sarà elevato.

Parliamo di donne e di emancipazione, tema ampiamente trattato in diversi saggi. Ovviamente citiamo in primis Rita Pavone e Patty Pravo. Le chiedo: quanto in Italia la musica ha contribuito all’emancipazione della donna e quanto invece il contrario?

Ogni fenomeno è tendenzialmente ambivalente. Da sempre, i cantautori storici in Italia sembrano aver puntato più al contenuto, al messaggio, alla composizione. Le donne della canzone invece all’interpretazione, allo stile, alla vocalità. Questo le ha rese geniali come maschere sceniche, ma le ha spesso anche imprigionate in cliché estetici e antropologici (l’eterna ragazzina Pavone; l’eterna bambola Patty). E le ha rese ipertroficamente attente all’immagine, che qualche volta ha rischiato di diventare una sorta di “ceramica” priva di vita. Vedi, ad esempio, il non voler invecchiare da parte di alcune dive, con esiti parodistici e tristi (anche se gli uomini fanno ormai concorrenza …). Ho molto apprezzato invece il modo non convenzionale di proporsi di una diva storica del rock internazionale, come Patti Smith, a un cui concerto ho recentemente assistito, che non ha certo paura di mostrarsi con le sue rughe e i suoi capelli grigi, in austeri ma elegantissimi tailleur, pantaloni scuri, fedele alla propria ispirazione originaria. Intanto, da noi, mentre i cantautori sono ormai considerati dei veri e propri maîtres à penser, che sostituiscono il ruolo che fu di poeti, pensatori e artisti visivi del passato, le nostre icone al femminile raramente sono avvicinate con analogo rispetto, e ci si sofferma più su aspetti visivi, di costume quando non di banale gossip.

E parlando di oggi, facendo riferimenti a nomi di questa attualità? Che ruolo ha la donna oggi nel pop italiano?

Purtroppo, nel pop non solo italiano, ma anche e soprattutto in quello internazionale, è più che mai oggetto di consumo, e questo in maggior misura laddove sono coinvolti gli interessi di major discografiche o del web. Ormai la musica, specie quella pop, è in gran parte un fatto visivo, e l’analisi dei videoclip che accompagnano i successi internazionali delle più acclamate star femminili rivelano aspetti interessanti, inerenti alla condizione della donna nello show business contemporaneo. Con pretesti ipocritamente emancipatori, essi veicolano in realtà un approccio ancora maschilista rispetto all’identità di genere, di solito connesso a una scontata sessualizzazione dell’immagine femminile, o almeno a una rappresentazione delle donne fondata su una gradevolezza naturalistica e immediata, cui si richiede più tecnica che ispirazione. La complessità non paga di fronte alla semplificazione pop, che intende regalarci dive perfettamente integrate (anche e soprattutto nella pseudo-trasgressione), cui le multinazionali dicono come vestirsi e cosa dichiarare, non in grado di ridiscutere il contesto consumistico e mercificante che le esprime e promuove, ma anzi alimentandolo. In Italia, il cui mercato discografico è tendenzialmente meno planetario di quello anglosassone, tutto ciò è più sfumato. Se posso avanzare un’osservazione personale, noto che interpreti di talento come Dolcenera, Giusy Ferreri o Alessandra Amoroso, inizialmente più dissonanti e anomale, sia nella emissione vocale che nell’immagine, tendono poi, nel prosieguo della loro carriera discografica, ad adeguarsi ai cliché di una piacevolezza sia di immagine che vocale, molto più allineata al gusto medio di quanti dovrebbero acquistare i loro dischi o andare ai loro concerti. Ma non ci sarebbero mai state una Janis Joplin o una Patti Smith nella storia della musica, se si fosse ragionato in questo modo.

Che poi, grazie alla Santa Televisione sdoganiamo al pubblico una immagine e un valore assai medioevale di donna, con il beneplacito di chi ogni giorno combatte per l’esatto contrario. Alla faccia di questo 2019, del futuro ma soprattutto della coerenza…

Sono colpito dalla piatta volgarità di alcune regie e inquadrature televisive che rappresentano il corpo delle donne privandole della loro anima. Si annuncia un nome e – invece di inquadrare la persona nel suo insieme – si incomincia dalle gambe o dal lato B, a salire, in una sorta di logica da macelleria, mentre le mise e il trucco sono sempre più vistosi e appariscenti, in modo da stupire il pubblico e trattenerlo dal cambiare canale, anche attraverso una pervasiva banalizzazione del richiamo erotico. Quanto lontani da una sorta di “mistica del desiderio” che caratterizzava i “grandi maestri” del cinema italiano, come Antonioni e Visconti, Pasolini e la Cavani! Quanto lontani dall’eleganza di Studio 1, Gianburrasca o le Canzonissime degli anni ’60 e ’70! Resta consolatorio un fatto: con gradualità si va conquistando la parità di genere in Tv, perché ormai anche il corpo maschile incomincia ad essere altrettanto banalizzato e strumentalizzato… in una gara verso il peggio che riserverà senz’altro altre sorprese (come dimostrano gli attuali reality di punta…). E che dire della odiosa strumentalizzazione di bambini e adolescenti nella pubblicità e soprattutto nei talent, che li vedono protagonisti vezzeggiati e adulati sulle reti nazionalpopolari? Io trovo tutto questo culturalmente un po’ pornografico…

E restando ancora sul tema vorrei fare un raffronto con il resto del mondo e in particolare con il sogno americano. In America (e non solo ovviamente) abbiamo avuto artiste impegnate nella canzone di protesta politica e sociale (e qui è inevitabile il rimando a Joan Baez o Bonnie Dobson tanto per citarne due). In Italia che cosa è accaduto in questo senso?

America e Italia sono due pianeti distanti. E lo dico perché ho passato, da studente, un lungo anno negli Stati Uniti, venendo strettamente a contatto con la realtà locale. Sin dalla loro nascita, gli States hanno rappresentato un nuovo progetto storico e antropologico, i coloni avevano di fronte un continente di estensione e ricchezze inimmaginabili, nessuna stratificazione sociale e motivazioni politico-religiose, ma soprattutto esistenziali, intime e profonde. L’Italia, piccola e stretta anche geograficamente, con i suoi borghi di origine medievale e la sua storia cortigiana e regionale, ove le gerarchie feudali e dinastiche si sovrapponevano e incastravano in un sottile gioco di plurisecolari equilibri, è sempre stata un paese dal dinamismo sociale quasi assente e dalla radicata e quotidiana pratica clientelare, garanzia per le classi privilegiate di tramandare il privilegio, e questo sino ai giorni nostri (dove, infatti, “i cervelli” emigrano…). Come tutto il resto, anche il ruolo delle donne ne ha risentito: più emancipato e paritario oltreoceano, più domestico e familistico da noi. Le cantanti si sono adeguate e – anche con l’evoluzione che ha inizio negli anni ’60 – si sono sempre ben guardate dall’urtare contro sensibilità e dal rompere i cliché. E chi ci ha provato ha pagato duramente: Maria Monti che non riusciva a far passare in radio i suoi brani caustici e corrosivi (come “Benzina e cerini”, scritta da Jannacci, in cui si parlava di dar fuoco al proprio amato), Jula de Palma, che fu per un po’ allontanata dalla Rai per aver cantato in modo troppo suadente il brano sanremese “Tua”. E quando la stessa Pavone cercò di mutare il ruolo gianburrascoso delle origini, sia musicalmente che nella vita privata – a inizio anni ’70 e poi negli anni ’80 come cantautrice – dovette subire degli scossoni di assestamento della carriera non indifferenti. In generale, le cantanti italiane ricordano più l’idea di una bellezza compiuta e di una armonia caratterizzata da piacevolezza (estetica conservatrice, sentimento del bello), mentre le americane – forse anche per le influenze afro – l’idea di un incompiuto, di una energia, di una spontaneità quasi primordiale, in sintonia con il senso della frontiera e del suo oltrepassamento (estetica eversiva, sentimento del sublime). Preferisco l’approccio delle seconde, meno provinciale.

Ecco. La Televisione: in merito devo dire che ha speso lunghe e preziosissime analisi. Pasolini sosteneva che una delle uniche rivoluzioni possibili sarebbe quella di spegnere la televisione. Che sia dunque lei la causa principale di questa crisi sociale che viviamo?

Sono d’accordo con Pasolini. Ma oggi è più importante ancora spegnere gli smartphone. Credo infatti che nemmeno l’Istituto Luce nel ventennio fascista riuscisse ad essere così intrusivo e lesivo dell’intimità delle persone come i media contemporanei e, attraverso di essi, il potere economico ormai egemone su quello politico che, tendenzialmente, si limita a rappresentarne e tutelarne gli interessi, con cui si identifica. Dunque, se nella cupa età dei totalitarismi fra le due guerre gli italiani dovevano andare in piazza, a scuola o al cinema per essere indottrinati, oggi noi lo siamo 24 ore su 24 nel salotto di casa, in metrò o in aereo mentre navighiamo in rete o usiamo il cellulare. In più, attraverso sofisticati sistemi di riconoscimento e trattamento dei dati, siamo continuamente monitorati nei nostri gusti e nelle nostre scelte, con possibilità di controllo inaudite e davvero virtualmente totalitarie.

La mia impressione è che sempre più – anche in quelle che appaiono reazioni e manifestazioni di massa – siamo eterodiretti e manipolati da un sistema che, con modalità progressivamente scientifiche, ci fa credere di agire liberamente laddove tende invece a indurre in noi reazioni pilotate sulla base del meccanismo stimolo-risposta. E questo vale per la formazione delle opinioni politiche, ma anche del gusto e degli stili di vita: invece di coltivare profondi e personali interessi estetici corriamo dietro alla “Dama con l’ermellino”, perché ne parla la televisione…

Inoltre, persone e temi dominanti nei media – selezionati in maniera del tutto artificiale, clientelare e funzionale al sistema stesso, con rigidissime e arbitrarie entrature blindate – producono un inevitabile transfert nel pubblico, che confonde la reiterata visibilità di questi con una effettiva importanza ontologica, etica, o genericamente culturale degli stessi, tanto che lo status di un soggetto – talvolta anche economico, ma senz’altro sociale e culturale – viene a incrementarsi in modo esponenziale se appare nei media. I media – punto d’arrivo della visione antropocentrica moderna e postmoderna – sono diventati il paradiso dell’uomo contemporaneo, l’olimpo che sancisce la natura eroica e superumana di chi vi appare – e il naturale rispecchiamento per il singolo, che ha sostituito quello della trascendenza cristiana o genericamente spirituale, colonizzando il nostro immaginario collettivo.

Ma il Paradiso cristiano avrebbe dovuto alimentare la santità quotidiana, con vite all’insegna del sacrificio e dell’impegno; il paradiso mediatico educa al narcisismo, alla ricerca della visibilità, e alla sua identificazione con il valore, in uno stravolgimento di priorità che è sotto gli occhi di tutti. Apparire è un valore in sé assoluto, e quindi non importa se come futili emuli di improbabili rockstar, litigiosi protagonisti di un insulso reality o aspiranti killer seriali. E la logica è perlopiù quella del talent: tutto è percepito come finalizzato all’autocelebrazione, che si esprime nella eliminazione degli avversari per affermare il solipsistico valore dell’ego, nella fattispecie quello del vincitore, in cui tutti si rispecchieranno infine, alienandosi dal proprio sé più autentico. Ma tutto questo obbedisce ai meccanismi di un tardo capitalismo acefalo, che ha nella celebrazione del capitale stesso, come autoreferenzialità assoluta, il proprio fine e la propria ragion d’essere, moltiplicata nelle inermi monadi che lo replicano e rappresentano sul piano iconico-simbolico, entrando al suo servizio, magari proprio attraverso un reality.

Sì, dobbiamo spegnere (almeno per un bel po’ di ore al giorno) Tv e media in genere, e riscoprire famigliari, amici, vicini di casa, colleghi, persone sul territorio. Magari fare volontariato per tornare a scambiare parole e sguardi.

Lo ha citato e lo cito anche io: Marshall McLuhan. “Il mezzo è il messaggio”. Se vedesse oggi il mondo in cui noi ci siamo ridotti a pensare che esistiamo perché lo dice la televisione. Un artista, un cantautore, è niente senza i Like, le visualizzazioni, la televisione…

Siamo al trionfo dell’autodivismo. Non cerchiamo più l’altro, ma la nostra immagine riflessa nello schermo. Anche i giovani tendono a rispecchiarsi nel gruppo dei pari come medium amplificatore dell’io, e il divo è solo l’occasione-spinta per accorparsi, non per trascendersi, come accadeva in passato, in funzione di un modello che esprimeva dei valori verso cui tendere. E trionfa l’autoreferenzialità dei social, dove si scimmiottano i divi con pose e vezzi ai limiti della parodia e del più assurdo voyerismo. Inoltre, non si distingue più tra il fare qualcosa (per esempio, musica) e l’avere successo, anzi conta solo il successo, e ciò che si fa per averlo diventa ininfluente e coincide spesso con il deprecabile, dal punto di vista morale ma, spesso, anche estetico.

E qui è inevitabile un collegamento ai giovani (e non solo). Una domanda su storie di vita vissuta. Mi capita spessissimo, l’ultima proprio qualche settimana fa, di intervistare artisti o giornalisti di fama o comunque autori di opere assai ricche di grazia e spiritualità. Poi il confronto fatto di parole e di vita comune mette in evidenza una enorme maleducazione o anche una carenza (per non parlare di totale assenza) di cultura, intelligenza e attenzioni verso i dettagli più basilari del sapersi comportare. E si fidi che sono stato anche clemente. È come se ormai il prodotto creato sia solo figlio del mero bisogno di produrre qualcosa, figlio del bisogno di dire a tutti che ci sono… e non qualcosa che manifesti ciò che ho di dentro. Ma questo è quel che penso. Lei invece come la vede? Cioè come si spiega questa totale incoerenza tra l’essere e l’apparire di un artista?

Riflette la totale incoerenza che c’è oggi anche nelle persone comuni. Siamo stati sistematicamente esposti a situazioni corruttive, moralmente violente o sedative, velatamente pornografiche. E al contempo all’obbligo del politically correct, di un formalismo beneducato che è quello delle commesse nei negozi di tendenza o dei call operator cui non importa nulla di te, ma che vogliono venderti qualcosa. Abbiamo così la sconvolgente situazione che alla perversione interiore – ma più spesso alla banalità assoluta, che è forse anche peggiore – corrisponde un’immagine, un’apparenza, una forma impeccabile, sorridente, algida e gentile, inattaccabile dal punto di vista amministrativo e legale, però capace di delinquere, di uccidere – per esempio – con l’indifferenza e l’egoismo sociale più smaccato. Mi batto per i diritti ma ignoro l’anziano sul pianerottolo e sono cinico e invidioso verso i colleghi. L’indifferenza che uccide – purtroppo – non è reato. Tale divario fra essere e apparire ha una storia lunga, che affonda le sue radici nell’esigenza che ha la filosofia moderna, a partire dal XVI° secolo, di autonomizzare la scienza, e quindi di separare interiorità ed esteriorità, res cogitans e res extensa, spirito e materia, affermando che è rilevabile e rilevante solo ciò che è tangibile, misurabile, sperimentabile. Così abbiamo scoperto la legalità, ma dimenticato il valore, il vero oggetto di ogni desiderio profondo, e la nostra società si è gradualmente incarognita. Le icone del successo di massa, forse, hanno interiorizzato la lezione, e fatto business di questo divorzio fra essere e apparire. La nobiltà va cercata nelle vite nascoste che non sono scese a patti col potere mediatico e la distopica videocrazia in cui viviamo, anzi in certo qual modo la ignorano e – senza neanche saperlo – passano oltre.

C’è un passaggio tra i suoi saggi che vorrei si sottolineasse qui. Le lancio solo un assist poi la lascio libero di andare. E la prego di andare… Parliamo di TALENT: i ragazzi di oggi come schiavi nelle tratte del successo…

Come dicevo prima, trovo di una tristezza sconcertante che i giovani (ma non solo) di mezza Italia affollino piazze e teatri per accedere alle selezioni dei talent show di successo (e ve ne sono per ogni gusto: canori, coreutici, gastronomici, letterari, più svariati tipi di reality). Insomma, sembra che la gran parte di essi si percepisca come un tale valore da esigere pubblica e spettacolare manifestazione, meritevole di una congruente ed esaltante carriera, idonea al successo di massa, votata a guadagno e pubblico riconoscimento, in ciò supportata dalle rispettive famiglie e – in generale – da un compiacente e ammiccante mondo adulto, che accoglie tali teenager – fin che servono all’audience – con tappeti rossi ed effetti speciali, salvo poi rigettarli nel grigiore delle loro vite reali quando la festa è finita. Sembra che l’unico meccanismo di relazione di cui tali aspiranti star appaiono capaci sia una sorta di autoriconoscimento spettacolare, mentre il sistema fornisce loro una banale logica binaria, in cui ad ogni passaggio ne va della eliminazione dell’avversario, o della propria, in un gioco senza esclusione di colpi, ove anzi occorre catturare a qualsiasi costo l’attenzione, il consenso, la simpatia del pubblico o di un giudice spesso dispotico, oltre che troppe volte incompetente. Si ha quindi anche un pericoloso divorzio fra merito o valore e premio, che ci abitua all’esercizio dell’ingiustizia e dell’arbitrio come normali metodi di valutazione delle persone. Così si finisce con l’accettare che, nella stessa società, prevalgano sistemi di selezione e relazione fondati su corruzione, mediocrità e clientelismo.

Devo chiudere. E so di aver tralasciato tanta parte di questo libro. Però non posso che condividere con lei una domanda, anzi la speranza di una risposta a questo punto. E mi perdonerà la banalità: fin quando le televisioni resteranno accese assieme ai social dei telefonini, la nostra evoluzione è condannata? E dove sta puntando?

Si sta realizzando una trasformazione antropologica radicale che coinvolge finanche le nostre sinapsi cerebrali, rendendo l’intelligenza delle masse sempre più passiva ed esecutiva, pratica e amministrativa, in sostanza idonea a scegliere fra stimoli, ma incapace di alimentare visioni, di immaginare un mondo diverso da quello che ci mostrano i media e che ha ormai colonizzato le nostre menti, impedendoci di vivere in quella realtà quotidiana che – se riconosciuta e assunta come nostra – potremmo rendere migliore, grazie alla potenza trasformatrice dei nostri sogni e del nostro desiderio.