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REVIEWSLE RECENSIONI
L'Altra Faccia della Luna
Carver
2021  (Tataki Records)
EXPERIMENTAL/AVANT-GARDE ELETTRONICA
8/10
all REVIEWS
08/12/2021
Carver
L'Altra Faccia della Luna
I Carver hanno presentato il nuovo disco “L’altra faccia della luna” alla Palestra Visconti del Circolo Arci Bellezza con una esperienza immersiva senza precedenti. Il racconto dell'album e dell'avventura di quella notte.

Quando arriviamo la sala, un’ex palestra dove Luchino Visconti ha girato alcune scene di “Rocco e i suoi fratelli”, è scarsamente illuminata, quasi buia. C’è uno schermo dove si proiettano video inquietanti, difficili da decifrare, mentre le casse trasmettono una selezione di rock anni ’60 che risulta in totale contrasto con le immagini. Le sedie sono sistemate in modo da rendere chiaro che il centro dell’azione non sarà né lo schermo né il palco. Che peraltro non esiste, c’è solo un pianoforte che evidentemente non verrà utilizzato, e un Mac che servirà per le basi; altro non si scorge.

All’ingresso ci è stata consegnata una mascherina per gli occhi, sul modello di quelle che danno in aereo per i voli intercontinentali. È nera, come il paio di guanti in lattice ad essa abbinati, in più ci vengono forniti anche una cassetta audio con il disco ed un piccolo libretto nero contenente i testi.

Poco dopo le 22 una voce registrata, impersonale e vagamente straniante, avvisa i presenti di indossare guanti e mascherina, che non dovrà essere rimossa per nessun motivo. Quel che segue è una “performance” (chiamarlo concerto è impossibile, direi), dove i brani del disco vengono riprodotti uno per uno, in rigoroso ordine di tracklist.

Cosa abbiamo ascoltato? Erano le versioni in studio? Almeno la voce era dal vivo? Loro due erano presenti? Impossibile rispondere. Quando la voce ritorna da noi, dicendoci che è ora possibile rimuovere la mascherina, sul “palco” non c’è nessuno. È ragionevole pensare che ci fossero, perché dopo tutto si trattava della presentazione del disco, ma noi non li abbiamo visti, né prima né dopo, quando siamo usciti a fumare una sigaretta nel cortile freddo e umido dell’Arci Bellezza. La sensazione è quella di avere assistito ad una di quelle serate concettuali e di avanguardia che, dalla Milano futurista alla Swinging London che ha dato i natali ai Pink Floyd, fino alle sperimentazioni estreme di un certo Post Punk, hanno in qualche modo segnato la nascita di nuove correnti.

Già, ma i Carver, esattamente, che cosa sono? Le informazioni in nostro possesso dicono trattarsi di un duo, formato da Il sig. Lupo (il Selezionatore) e Il sig. Colombo (il Maestro di cerimonie). In realtà, scavando un po’ di più, si viene a scoprire che, misteri e identità fittizie a parte, dietro questi alter ego si nascondono due personaggi non proprio sconosciuti: Marco M. Colombo è l’ex mastermind dei Motel 20099, band milanese che nel 2010 ha fatto uscire un disco, Romanticismo dalla periferia per giovani teppisti, che è rimasto di nicchia ma che un qualche movimento all’epoca lo aveva generato. I testi erano suoi, così come lo sono questi e a ben guardare in embrione c’era già qualcosa, anche se declinato attraverso una formula completamente diversa. Marco recentemente ha esordito col suo primo romanzo, Di ferro e cuoio, una storia di amicizia, dannazione e (in parte) redenzione, all’interno del contesto spietato di una provincia di una città qualunque. Un romanzo crudo, a tratti disturbante, di cui questi testi rappresentano in qualche modo una continuazione in chiave estrema. E poi c’è Matteo Cantaluppi, che non ha evidentemente bisogno di presentazioni, visto che c’è la sua firma in alcune delle produzioni italiane più importanti degli ultimi anni, dai The Giornalisti a Gabbani, dai FASK ai Rovere. Pochi sanno però che, oltre al suo normale lavoro dietro la consolle, Matteo compone musica elettronica e ha pubblicato alcuni lavori con la celebre etichetta americana n5MD, nome di culto nel mondo dell’Ambient e affini.

Il connubio tra i paesaggi sonori del secondo e le parole del primo è ciò che ha fatto scaturire l’esperienza di Carver. Un progetto in ogni caso difficile da descrivere ma, se dobbiamo basarci sul loro disco di debutto, L’altra faccia della luna, diremmo innanzitutto che i Pink Floyd non c’entrano nulla. Ci sono dei tappeti sonori cupi, a tratti scurissimi e quasi sempre inquietanti, a metà tra suggestioni Ambient e una sorta di strano minimalismo Industrial. Rumori di sottofondo come porte che si aprono, assi che scricchiolano, respiri pesanti e vocalizzi tribali, rimangono spesso e volentieri in sottofondo, come a destabilizzare ancora di più l’ascoltatore. La voce declama, recita, racconta storie, ma lo fa con un tono sofferente, che la quantità di effetti utilizzata rende a tratti disturbata, quasi folle. Non è stato rassicurante sentirla a tutto volume e ad occhi chiusi, fidatevi.

Minimalismo, si potrebbe dire, perché sia le musiche sia i testi sono appena degli schizzi, non sono mai definiti nella totalità ma paiono più che altro focalizzarsi su dettagli impressionistici. Insomma, così come per il titolo del disco, diremmo che anche il monicker che si sono scelti è fuorviante: dello scrittore americano a cui si richiamano hanno solo l’impronta scarna ed un certo alone di inquietudine, per il resto i linguaggi che utilizzano sono decisamente più estremi.

E la stessa cosa si potrebbe dire del paragone con i Massimo Volume che, lo so già, vi starà venendo in mente di default nel momento in cui state leggendo. Vero senza dubbio che la scrittura di Colombo è per certi versi vicina a quella di Emidio Clementi (una certa insistenza nei dettagli ma anche una sorta di compiacimento nel non voler mai rivelare troppo della situazione che sta descrivendo; o anche una cupezza di fondo che aleggia sulle ambientazioni tratteggiate) ma allo stesso tempo lo scrittore marchigiano non ha mai indugiato in quella violenza che invece traspare, a volte esplicita a volte più sottesa, nei testi dei Carver.

Identico discorso lo possiamo fare per l’aspetto musicale: i Massimo Volume sono una vera band, hanno una sezione ritmica ed il grosso del lavoro melodico è svolto dalle chitarre; qui c’è solo l’elettronica (che poi a dire “solo” ci vuole del coraggio, visto quel che Cantaluppi fa sulle varie tracce) e, rispetto a quanto accade nel quartetto di Bologna, la musica dà più l’impressione di essere al servizio delle parole, pur vivendo comunque di una dimensione propria. Se proprio bisogna trovare un paragone, allora sarebbe meglio tirare in ballo gli Offlaga Disco Pax, anche se ovviamente siamo lontanissimi a livello di tematiche e mood generale.

Resta che L’altra faccia della luna è un esordio sorprendente, un monolite di angoscia e ferocia, dove ad istantanee a metà tra Lynch e Tarantino si alternano racconti più intimi e quotidiani, dove anche le tessiture di Matteo Cantaluppi si fanno leggermente più aperte, meno soffocanti. Niente riscatti, però. Niente redenzione. Al massimo si può contemplare un sole che “è come una palla da biliardo in attesa di entrare in buca”; oppure, come nella conclusiva “La fine di tutto”, concedere che, se “tutto crolla", "noi torneremo come le luci della sera”. Altro spiraglio non è dato da intravedere.

Adesso forse si capisce meglio il significato dell’esperimento tentato dai nostri, il giorno dell’uscita di questo disco. Bisogna avere del coraggio per affrontare L’altra faccia della luna: il coraggio di andare, ciechi, verso ciò che per definizione non si può vedere; il coraggio di intraprendere un viaggio, per fortuna breve, verso ciò che più ci disturba e che non vorremmo sentire. “Vorrei dirti di più amore mio" – dice Marco nell’iniziale “E venne il giorno”, sorta di muta epifania a rovescio, “ma questi sono segreti che devono rimanere nascosti”.

Sinceramente anche noi siamo contenti che rimangano tali. Anche se non possiamo negare che guardarci dentro, anche solo per un po’, ci ha provocato un oscuro piacere a cui non sapremmo dare un nome ma che è lì e ci chiede di essere rivissuto, non appena possibile.