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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
15/05/2019
Aldous Harding
Le interviste di Loudd
Quando mi siedo davanti ad Aldous Harding, nella hall dell’hotel milanese che la ospita per questo tour promozionale, rimango subito colpito. Ha modi cortesi, quasi raffinati, mi guarda con occhi grandi e profondi, parla con gesti lenti e misurati, che la fanno sembrare molto più matura e consapevole dei suoi 29 anni.

Ha lasciato la Nuova Zelanda da tempo e adesso vive in Galles ma quando, alla fine della nostra chiacchierata, provo a strapparle una breve battuta sulla Brexit (non parlo mai di politica coi musicisti che intervisto ma in questo caso ero curioso, oltre che la questione ha una portata decisamente più vasta), mi guarda tra il disgustato e lo spaventato e, dopo un’esitazione di parecchi secondi, mi dice che non vuole assolutamente dire nulla.

Del resto non dà l’idea di essere una persona semplice: gentilissima e affabile, quando inizia a parlare non si capisce mai se stia pensando ad altro o se, al contrario, sia talmente concentrata sulla risposta che ti sta dando, da perdersi nel flusso incessante dei suoi pensieri. Lunghe pause tra una frase e l’altra, a tratti assorta, a tratti quasi spiritata, non sempre facile da seguire, l’immagine che trasmette di sé è comunque quella di un’artista vera, cosciente dei propri mezzi e totalmente dentro la propria musica. Non potrebbe essere altrimenti: “Designer”, il suo terzo lavoro, che continua il sodalizio artistico con John Parish e con un’etichetta prestigiosa come la 4AD, è indubbiamente il suo migliore, quello dove ha forse per la prima volta imparato a gestire e ad utilizzare al meglio le sue doti, sia di scrittura sia canore, andando a confezionare un lotto di canzoni che suonano fresche e dinamiche, senza quella pesantezza che a tratti affiorava nei due capitoli precedenti. Se non è già un punto di riferimento per la scena femminile di un certo Folk rock, lo diventerà senza dubbio a breve…

Ti faccio i complimenti per il disco, che è probabilmente il migliore di quelli che hai fatto finora. Non l’ho ancora ascoltato molto, credo non più di cinque volte ma…

È tanto!

Beh oddio, mica troppo… ad ogni modo lo trovo un lavoro più focalizzato sulle canzoni, come se avessi trovato la formula per scrivere un pezzo che vada dritto al punto. Non so, ho l’impressione che i due precedenti, pur belli, vivessero di alcuni momenti un po’ dispersivi…

Innanzitutto, ti ringrazio. Sono d’accordo con te sul fatto che sia il mio miglior lavoro. È un disco che ho fatto sostanzialmente per dire come mi sento. Ho trovato un modo per essere allo stesso tempo diretta ma anche aperta, un modo per farmi delle domande senza per forza sembrare sciocca. Sono cambiata, non sono più la stessa di prima anche se ovviamente non è stato un cambiamento radicale. Mi sembra che ci sia più libertà nel modo in cui ho fatto le cose, nel modo in cui ho mischiato gli elementi, nel modo in cui sono riuscita a comunicare come mi sentivo, nel modo in cui mi facevo queste domande. “The Barrel”, per esempio, più il video che la canzone (anche se i due non sono esattamente collegati, diciamo che il video si riferisce più al disco in generale), quando ballo in quel modo, è come se fosse un’apologia della gioia; Normalmente non si pensa mai che il modo migliore per essere presi sul serio sia fare così, ballare al ritmo delle maracas ma allo stesso tempo chiedersi: “Come faccio ad essere così seriamente felice?” Molta gente ha paura di ammettere di sentirsi in un certo modo, ha paura a dire che è felice o che è addolorata per qualcosa. Ballare è considerato un segno di debolezza e man mano che vado avanti con gli anni capisco perché lo faccio, capisco che puoi essere serio senza atteggiarti a serioso, capisci? Penso che faccia semplicemente parte del processo di crescita! Il disco è questo, è una sorta di scusa ed è luminoso, persino le canzoni tristi non sono veramente così tristi…

In effetti mi sembra il tuo disco più leggero, oltre che il più allegro… che cosa puoi dirmi del processo di scrittura? È stato difficile?

Per la maggior parte delle canzoni no. Non sono una di quelle persone che inizia un sacco di pezzi insieme e poi non riesce a finirli. Di solito ne inizio una e non mi fermo finché non l’ho finita. Penso che quella che ho impiegato di più a scrivere sia stata “Zoo Eyes”: l’ho iniziata in macchina, mentre andavo a trovare degli amici, ma l’ho finita solo due minuti prima di entrare in studio! Normalmente però non sono una che si tormenta troppo con la scrittura: se mi viene un blocco, mi metto lì seduta a fumare, senza fare nulla e dopo al massimo un paio d’ore mi è passato, so di nuovo cosa fare. “Pilot”, per esempio, l’ho scritta in 15 minuti, con “Treasure” ci è voluta una giornata. Non è stato un lavoro faticoso, dunque.

Come hai deciso il vestito da dare ai pezzi? E in che modo ha contribuito John Parish, se l’ha fatto?

Riguardo a John ti posso dire che ero certissima di non volere il violino su “Fixture Picture” e su questo abbiamo avuto una lunga discussione. In realtà poi, man mano che andavamo avanti mi accorgevo che il pezzo stava uscendo molto meglio di quanto avrebbe fatto se ci avessi lavorato da sola. Ho deciso di lasciarmi andare perché era un momento di grande ispirazione, ho lasciato che la Musa mi prendesse e mi portasse dove voleva e in questo senso capivo che il violino avrebbe portato il pezzo in una zona diversa, che non avevo calcolato. Io e John comunque ci siamo sempre trovati d’accordo, quasi su tutto. Vorrei dire che lui è come se fosse mia moglie: sento di avere io il controllo sul processo creativo ma allo stesso tempo lui è il mio miglior critico, dal punto di vista musicale è quello che mi conosce meglio di tutti; questo per la situazione in cui io mi sono messa di fronte a lui: sono sempre stata molto fragile e musicalmente molto esigente, per cui alla fine la decisione è sempre mia, ho io l’ultima parola però mi fido tantissimo di quello che John mi dice. Così sul violino in “Fixture Picture”: tu dici che ci deve essere, io non sono assolutamente d’accordo però non ho un’idea migliore quindi va bene, mettiamolo. E infatti poi l’abbiamo messo. Scusami, questa dev’essere stata la storia più noiosa del mondo…

No dai, non è vero! È stato interessante! Senti, invece per quanto riguarda i testi: li ho trovati molto evocativi ma non è che li abbia capiti molto… forse però è giusto così, non è che tutti i testi siano fatti per essere capiti da chi legge…

Quali sono quelli che non hai capito?

Sicuramente “Zoo Eyes”: al di là del titolo, c’è questo verso che dice: “What am I doing in Dubai” che ho trovato alquanto misterioso…

Beh, innanzitutto rima con “Why” e poi… non so, mi piaceva l’immagine, il fatto di suscitare delle domande: chi è a Dubai? Perché è lì? Cosa è andato a fare? Più che dare un messaggio, direi che sto dipingendo un quadro: è l’immagine che conta.

Quindi non sei mai stata a Dubai?

Dio mio, no! (Ride NDA) Perché mai avrei voluto farlo? Sì, ci sono passata, ho fatto scalo lì mentre andavo da qualche altra parte ma andarci di proposito… piuttosto, trovo che sia una bella parola, ha un suono antico, non trovi? È suggestiva da scrivere ma anche da pronunciare: “Dubai”… le parole che uso provocano varie suggestioni, evocano immagini che sono diverse a seconda delle persone che le leggono.

E l’immagine del titolo? “Zoo Eyes”: è particolare, no?

Che cosa significa, secondo te?

Non saprei. L’idea di essere intrappolato? Di essere in gabbia con gente che ti guarda da fuori?

Avevo in mente questa immagine di guardare negli occhi di qualcuno ed improvvisamente iniziare a vedere elefanti, gatti, scimmie, uccelli… un paragone tra le facce della gente e degli animali chiusi in gabbia… come quando dici: “Hey, quel tipo ha orecchie da elefante!”. Capisci? Non è che io sia pazza, era piuttosto un modo per dire a me stessa che alla fine è così che il mondo funziona…

E invece “Heaven is Empy”? La canzone non è particolarmente triste ma il titolo dà un messaggio piuttosto lapidario. Che cosa hai voluto esprimere?

Penso che sia ovvio. Ho portato la mia macchina fotografica, sono arrivata in questo posto, “Il Paradiso è vuoto, che cazzo ci faccio qui?”. Non avrei dovuto essere lì ma allo stesso tempo dovevo essere lì, altrimenti il verso “I brought my camera” non avrebbe funzionato. Mi piace quel verso, comunque!

Penso che la canzone più bella dell’album sia “Damn”: lo trovo un pezzo molto minimale, con questo pianoforte che tiene su tutto ed un suono che si riempie solo alla fine, con l’aggiunta dei vari strumenti…

L’ho scritta in studio. Ho iniziato nella mia stanza, con una chitarra, poi sono passata al piano e ho scritto il testo. Secondo te di cosa parla?

Non saprei. All’inizio ti rivolgi a tua madre ma poi sembra che entri in gioco anche un’altra persona, che io non conosco per cui non mi pare ci siano dei riferimenti che permettano di capire…

Eh lo so, vorrei poterla spiegare ma è troppo delicata…

Cosa puoi dirmi invece del tuo prossimo tour?

Ci sarà una band ma non so ancora come sarà. Ho fatto concerti per dieci mesi di fila, non sono più necessariamente la persona che ero prima, sarà sicuramente interessante vedere cosa succederà!

Spero di riuscire a vederti al Primavera Sound. In ogni caso passerete anche dall’Italia, immagino…

Penso proprio di sì, ne sono abbastanza sicura!

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