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REVIEWSLE RECENSIONI
17/07/2018
Burn the Priest
Legion: XX
Ascoltare “Legion: XX” dei Burn the Priest (ovvero i Lamb of God sotto mentite spoglie) è come spiare le prove di una delle ultime grandi band emerse dalla cosiddetta New Wave of Americal Heavy Metal mentre suona alcune delle canzoni che hanno plasmato i gusti musicali dei suoi cinque componenti. Per qualcuno non sarà niente di sconvolgente, è vero, ma il divertimento è assicurato.

Tra tutti i modi per festeggiare i vent’anni di carriera, probabilmente i Lamb of God hanno scelto la soluzione migliore. Quale? Rispolverare il nome originale della band (Burn the Priest, sotto il cui monicker il quintetto di Richmond ha inciso nel 1999 l’omonimo album di debutto) e chiudersi in studio a suonare le canzoni che li hanno maggiormente influenzati quando, nei primi anni Novanta, erano ancora degli studenti della Virginia Commonwealth University. Diversamente da quanto ci si può aspettare, però, in Legion: XX non c’è spazio per il Metal. E così, a farla da padrone, sono Punk, Hardcore, Crossover, Noise e Sludge. Nessuna forma di snobismo nei confronti di gruppi come Slayer e Testament, anzi, solo che qui i Lamb of God hanno preferito ricreare una fotografia il più fedele possibile delle loro origini, quando, come ha raccontato Steve Austin (che ha prodotto i primi album della band) Mark Morton e Willie Adler non avevano mai davvero ascoltato le rispettive parti di chitarra tanto il volume in sala prove era assordante.

Quei tempi, ovviamente, sono sì vicini nello spirito, come Legion: XX sta a dimostrare, quanto lontani nella pratica. Al suono selvaggio e sporco di album come Burn the Priest e New American Gospel, i Lamb of God del 2018 preferiscono la precisione chirurgica applicata al Metal che solo un produttore come Josh Wilbur sa ottenere. Per cui le chitarre di Mark Morton e Willie Adler sono affilate come tagliole, il basso di John Campbell è pieno come non mai e la batteria di Chris Adler è talmente a registro da sembrare suonata da una macchina. L’attacco di “Inherit the Earth” dei The Accüsed ne è il perfetto esempio: un’aggressione sonora che è un calcio nei denti, di quelli che sanno come colpire per fare più male.

Probabilmente, però, il vero protagonista del disco è Randy Blythe, che, vista la tipologia delle canzoni scelte, può finalmente sentirsi libero di sperimentare su più registri. E, incassate le critiche dei fan più oltranzisti che non gli hanno ancora perdonato di avere utilizzato le clean vocals in alcuni passaggi di VII: Sturm und Drang e The Duke EP, può fare quello che vuole: utilizzare il registro basso in “Kerosene” dei Big Black, fare il verso a Mike Patton in “Axis Rot” dei Sliang Laos, oppure interpretare “Dine Alone” dei Quicksand alla maniera di Scott Kelly dei Neurosis.

E se alcune cover potrebbero essere scambiate facilmente per degli originali dei Lamb of God (“Honey Bucket” dei Melvins, “Kill Yourself” dei S.O.D. e “We Gotta Know” dei Cro-Mags su tutte),  non mancano i momenti in cui i cinque della Virginia si prendono dei rischi. È il caso di “Jesus Built My Hotrod” dei Ministry, così folle che a un primo ascolto non la si sopporta, ma di cui poi non si riesce a fare a meno.

È chiaro che un album come Legion: XX è autoreferenziale fino al midollo, un regalo che i Lamb of God hanno fatto prima di tutto a loro stessi. Cosa riserverà il futuro al gruppo di Richmond e come suonerà davvero il successore ufficiale di VII: Sturm und Drang, be’, non lo sa ancora nessuno. Per il momento ci si deve accontentare di spiare le prove di una delle ultime grandi band emerse dalla cosiddetta New Wave of Americal Heavy Metal mentre suona alcune delle canzoni che hanno plasmato i gusti musicali dei suoi cinque componenti. Per qualcuno non sarà niente di sconvolgente, è vero, ma il divertimento è assicurato.