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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
09/05/2022
Live Report
Lemonheads, 05/05/2022, BIKO, Milano
Questa sera siamo qui per festeggiare It’s a Shame About Ray, il disco che ha svoltato la carriera dei Lemonheads e che ha nel frattempo cambiato le sorti della musica alternativa.

Recentemente i Jawbreaker lo hanno allontanato dalle date americane a cui stava partecipando in veste di opener perché, a quanto sembra, se ne andava in giro tra il pubblico senza rispettare le norme anti Covid. Da qui, tutta una serie divertentissima di Tweet contro la band, accusata delle peggio cose per poi, come suo solito (ce ne fu una anche con Bush, negli anni Duemila, poi terminata con l’invito all’ex Presidente Usa a dipingere la copertina del prossimo disco) offrire il calumet della pace.

Evan Dando è così, prendere o lasciare. Dalla vita in stile post hippie che conduce a Martha’s Vineyard, ai rumor sulla sua autobiografia a lungo annunciata ma non ancora pubblicata (“Forse mi toccherà vederlo uscire e chiedere a tutti per favore di non comprarlo perché è una stronzata” ha dichiarato recentemente), a tutte le questioni attorno ad un ipotetico nuovo album (non fa nuova musica dal 2013 e quando gli hanno chiesto il motivo pare che abbia risposto che ci sono troppe belle canzoni in giro per desiderare di scriverne altre), non si può dire che seguire le gesta di uno come lui faccia annoiare.

Questa sera siamo qui per festeggiare It’s a Shame About Ray, il disco che ha svoltato la carriera dei Lemonheads e che ha nel frattempo cambiato le sorti della musica alternativa. Classico minore per intenditori, piuttosto che best seller a la Nevermind, il sesto lavoro dell’act americano compie trent’anni e mostra ancora oggi tutta la sua freschezza, nonostante un certo tipo di sound appaia comprensibilmente datato nel contesto odierno. Non sono diventati grandissimi come avrebbero meritato, purtroppo, perché a risentirle oggi questo dodici canzoni non hanno nulla da invidiare alla dimensione definitiva di dischi usciti in quegli stessi anni e che sono ormai parte della cultura popolare, anche in senso extra musicale.

Frutto di un tour in Australia deciso all’ultimo momento, che ha fruttato un sodalizio di lunga data con Tom Morgan, co-autore di gran parte di quelle canzoni e di quelle dei dischi successivi, coi suoi Smudge che finiranno regolarmente nel repertorio targato Lemonheads (“Tenderfoot”, per dire, l’hanno suonata anche stasera) e che ispireranno, attraverso la loro batterista Alison Galloway, quello che è uno dei brani più scintillanti del disco che stiamo celebrando.

Poi per carità, si possono fare tutti i discorsi del caso sul fatto che si sarebbe dovuti essere di più (il Biko era bello pieno ma non si tratta certo di una venue capiente), sul fatto che il pubblico medio fosse decisamente attempato, si possono spendere tutte le parole che si vogliono sulla reale utilità di continuare a guardarsi indietro, a parlare di dischi del passato e altre cose così. La verità è che It’s a Shame About Ray è un capolavoro, che siano passati tre decenni e che le giovani generazioni non sappiano di cosa parliamo, è solo apparentemente un problema.

Evan Dando sembra in forma, contrariamente alle voci che erano trapelate nelle settimane precedenti, anche rispetto al tour di cui sopra. Si presenta sul palco allegro e rilassato, dopo il piacevole ma non imprescindibile set dei canadesi Basement Revolver. Una copia di Infinite Jest in bella vista sull’amplificatore, il cellulare collegato con un amico per fargli ascoltare le prime battute del set (ad un certo punto lo ha messo vicino al microfono per fargli salutare il pubblico, poi il collegamento si è interrotto ma il telefono ha continuato a rimanere acceso alle sue spalle e ad illuminarsi periodicamente per le notifiche che arrivavano. Nella parte finale del concerto lo ha pure utilizzato al posto del plettro. Anche questo è Evan Dando, dopotutto). Assieme a lui il bassista Farley Gravin e il batterista Mikey Jones degli Swervedriver, a costituire una sezione ritmica di grande impatto e precisione (menzione d’obbligo per quest’ultimo, look da scappato di casa, si muove sul drum kit come se non sapesse bene cosa fare ma in verità suona da paura).

La prima parte del concerto è dedicata all’esecuzione integrale del disco e bisogna dire che le cose funzionano. Certo, c’è molta più sporcizia, le versioni sono proposte con un vestito rumoroso che è ben lontano dalla pulizia e dalla delicatezza degli originali. La voce, soprattutto nelle battute iniziali, ha qualche problema, in generale le note più alte lo trovano piuttosto in affanno ma sostanzialmente importa poco: il terzetto dà l’impressione di godere di buona salute, la mezz’ora e poco più che impiegano a suonare tutti i brani previsti dal copione è piacevole quanto basta, con ciascun episodio che segue l’altro senza troppi fronzoli e intermezzi, in pieno stile Punk. Il pubblico partecipa, canta i ritornelli dei brani più iconici, tutto funziona a meraviglia. Quando si arriva a “Frank Mills”, Evan sta sul palco da solo ed esegue una versione decisamente intensa e vincente di quella che è sempre stata una delle più belle, tra le numerose cover che ha interpretato nel corso della carriera.

Senza neppure interrompersi, attacca la parte centrale del concerto, quella acustica: è un momento di totale libertà, senza setlist stampata sotto i piedi, quasi improvvisata. Tante cover (tra cui una splendida “The Outdoor Type” dei soliti Smudge), qualche originale (“Into Your Arms”), un feeling di generale rilassatezza ma niente affatto buttato lì: le performance offerte sono grezze ma di prima qualità, le parti di chitarra ridotte all’osso ma funzionali ad una prova vocale sofferta ma assolutamente sincera. È soprattutto la rilettura di “Man out of Time” di Elvis Costello a colpire per la sua urgenza, ultimo atto di un set concluso quasi all’improvviso, facendo segno ai presenti che necessitava di fumare una sigaretta.

La seconda parte vede il ritorno della band e una nuova abbondante dose di rumore, per un viaggio lungo le pieghe di un repertorio vasto e quasi del tutto privo di flessioni (ne parlavamo all’uscita che, in un modo o nell’altro, con tutte le robe grandiose che ha scritto, si cade sempre in piedi, dovunque scelga di pescare). Alla fin fine sono gli episodi della visibilità commerciale, quelli di “Come on Feel The Lemonheads” e “Car Button Cloth”, a farla da padrone: si parte con “Hospital” e si finisce con “If I Could Talk I’d Tell You”; in mezzo, le potenti bordate di “The Great Big No”, “Break Me”, “Style”, “Dawn Can’t Decide”, ma anche incursioni in dischi più datati (veramente bella “Stove”) e ancora momenti di rara emozione (la sua “Speed of the Sound of Loneliness” è decisamente meglio di quella di John Prine, dai).

Finiscono di botto e se ne vanno così, un saluto veloce e zero bis. Ma è durato un’ora e mezza, impossibile lamentarsi. Poi Evan è tornato fuori e ha suonato ancora, chitarra acustica alla mano, per i pochi che ancora indugiavano nel cortile del locale. Io non c’ero, purtroppo, l’ho recuperato dalle storie Instagram di qualche fortunato. Anche questo, dopotutto, è Evan Dando. L’altra storia del rock alternativo, quella meno fortunata e, probabilmente, anche quella che ci piace di più.

E pare si sia pure messo a scrivere un nuovo disco. Direi che è difficile chiedere di meglio.

 

Photo courtesy: Corrado Angelini