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REVIEWSLE RECENSIONI
26/02/2024
Earthside
Let The Truth Speak
Dopo otto anni di silenzio dal loro acclamato esordio, gli americani Earthside tornano con un secondo album in cui alzano ulteriormente il tiro, attraverso uno spiazzante mix in cui frullano metal, prog, pop, atmosfere cinematografiche e sperimentazione.

Quella degli Earthside, band proveniente dal New England, sarebbe stata una storia perfetta per Chi L’ha Visto?, storico programma televisivo in onda su Rai3. Quando, infatti, la band americana pubblicò il suo album di debutto, A Dream In Static (2015), sembrava l'inizio di una carriera travolgente, di quelle accompagnate da rulli di tamburo e squilli di tromba. Quel disco, infatti, offriva all’ascoltatore una raffica diabolicamente complessa, ma anche estremamente accessibile, di canzoni che frullavano con eleganza prog metal moderno, post-djent e digressioni atmosferiche, catturando l’attenzione di pubblico e critica, che unanimemente vedevano nella band la next big thing del prog.  

Nessuno mai avrebbe pensato che ci sarebbero voluti ben otto anni, solo in parte a causa della pandemia e del lockdown, perché gli Earthside tornassero a far parlare di sè, con un seguito di quell’acclamato primo album. Tanto tempo, certo, ma speso benissimo, per affinare il loro suono e limare un filotto di canzoni a dir poco strepitoso.

Se A Dream In Static fu un fulmine a ciel sereno, potremmo definire questo nuovo lavoro un arcobaleno, i cui splendidi colori sono declinati attraverso una visione ambiziosa, aperta alla contaminazione tanto da essere quasi omnicomprensiva, ricca di suggestioni opulente, equilibrata nel fondere perfettamente atmosfere cinematografiche e la potenza del metal. Arricchito da una scintillante line-up internazionale di guest star, quali il frontman dei Tesseract, Daniel Tompkins, e Larry Braggs, cantante dei leggendari Tower Of Power, solo per citare i più noti, Let The Truth Speak è uno di quei dischi che trascende i più ovvi riferimenti stilistici e si distingue, invece, per la ricerca di una creatività sfacciata e una tensione “progressista” svincolata dai tropi di genere.

 

Ispirato dai tempi bui e dai cambiamenti che negli ultimi anni hanno coinvolto l’umanità intera, Let The Truth Speak è un lavoro profondamente emozionante, attraversato da onde di dolorosa malinconia. E’ un disco, anche, meticolosamente arrangiato e riccamente stratificato, composto da una scaletta di canzoni sontuose e clamorosamente melodiche, ognuna delle quali offre all’ascoltatore un microcosmo musicale autonomo, in cui nulla si sviluppa mai in modo convenzionale.

Chi è appassionato al genere, che nell’anno appena trascorso ha visto la pubblicazione di autentici gioielli (Haken, Ne Obliviscaris, Tesseract, Prophecy), finirà per soccombere anche al fascino di questo incredibile sophomore. Che si tratti di chitarre ribassate, di incursioni nel post rock o di digressioni atmosferiche, gli Earthside, infatti, hanno puntato alla perfezione, creando un universo vorticoso e multiforme che rapisce a ripetuti ascolti.

 

La delicatezza della traccia di apertura, "But What if We are Wrong", scivola dolcemente su un reflusso di marimba (opera degli ospiti Sandbox Percussion), prima che nel brano si insinuino oscure correnti sotterranee di chitarra e batteria, che si accumulano lentamente verso un crescendo avvolgente e maestoso. Il rullo ossessivo della batteria e aspri riff di chitarra spingono tensione nell’urgenza struggente dell’epica "We Who Lament", mentre la voce Keturah (ospite come lead singer), si posiziona a metà strada tra rabbia e struggimento malinconico, accompagnando il brano in una seconda parte decisamente post rock. In questo uno due iniziale si comprende immediatamente che le frecce migliori all’arco degli Earthside sono l’audacia e la complessità espositiva, quantunque, poi, ogni singola nota è assolutamente fruibile, anche da chi è refrattario ai momenti più contigui al metal.

E’ quello che succede, ad esempio, in "Tirrany" (alla voce c’è Pritam Adhikary della band metalcore degli Aarlon), una ballata monumentale e grandiosa, che scivola dolcemente, attraverso lusinghe pop, in un scintillante territorio post-rock, prima di cambiare nuovamente strada attraverso una straordinaria rete di riff, ritmica in controtempo e melodie oblique, mentre archi celestiali perforano la facciata fragorosa, aggiungendo un tocco di inquieto romanticismo.

 

Coinvolgere diversi cantanti come ospiti nelle tracce ha consentito alla band di concentrarsi solo sulla musica, e questo conferisce individualità alle canzoni, aggiungendo una varietà che non sarebbe stata possibile ottenere se avessero utilizzato sempre lo stesso singer. Ciò è evidente in svariati episodi, come quando AJ Channer dei Fire From The Gods presta le sue corde vocali per "Pattern of Rebirth", portando un timbro più caldo mentre riff rapidi e infuocati spingono verso territori più contigui al metal, o quando Larry Braggs appare nell’incredibile "The Lesser Evil", un sorprendente crossover fra soul e funk, prog e metal, strutturato inizialmente su dinamiche impalpabili e poi su una serie vorticosi di crescendo, in cui compaiono scintillanti e vigorosi ottoni e un drumming agile e sincopato come nella miglior tradizione del funk anni '70.

Difficile oggi trovare in giro qualcosa di più originale e eccitante, tanto che, quando nella seconda parte della canzone compaiono il flauto e il sax in una sospensione quasi jazzata prima che il brano torni a mostrare i muscoli, è quasi istintivo riascoltare la traccia ancora, ancora, e ancora. Puro genio.

 

E non è finita, perché c’è ancora tanta carne al fuoco. "Denial’s Aria" vede il ritorno della voce meravigliosa e seducente di Keturah, che in coppia con Vikke duetta in questa mestissima ballata, in cui le arpe suonate del Duo Scorpio (Katie Andrews e Kristi Shade) aggiungono un tocco etereo all'armonizzazione delicata e struggente. Vikke si cimenta anche in "Vespers", insieme al cantante russo Gennady Tkachenko-Papizh, creando una traccia oscura e ambient, e usando le voci come strumenti per un risultato surreale e ipnotizzante.

E se Daniel Tompkins (Tesseract) offre una magistrale performance vocale nella title track, un brano totalmente folle nella sua costruzione ansiogena e multiforme, il disco si chiude con l’epica coda strumentale di "All We Knew and Ever Loved", un finale claustrofobico e gravido di pathos che sfuma in un silenzio palpabile e smarrito.

 

Difficile rimanere insensibili di fronte a questo ascolto, un’opera colossale (quasi settanta minuti di durata), in cui non si apprezza solo la genialità delle composizioni o la caratura tecnica di una band davvero fuori dalla norma, ma anche, e soprattutto, la straordinaria tensione che permea ogni nota del disco. Una tensione che è capace di farsi furore, struggimento, estasi mistica, contemplazione malinconica e vibrante romanticismo. Un album talmente emozionante, che saremmo disposti ad attendere altri otto anni per poter provare lo stesso, intenso piacere.