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REVIEWSLE RECENSIONI
30/10/2020
Bruce Springsteen
Letter To You
Se una verità questo “Letter to You” ci deve consegnare, è quella che Bruce Springsteen pare ormai arrivato al capolinea come songwriter. Intendiamoci, non che sia mai stato questo autentico prodigio: ha avuto un periodo di ispirazione altissima, che è durata anche parecchio (facciamo almeno dieci anni dal 1973 al 1983) e ha poi vissuto di rendita, producendo ancora ottimi dischi e inanellando perle sparse qua e là nel corso del cammino.

Sarebbe meglio non fare premesse e partire subito a raccontare questo disco ma col nome che c’è in copertina non è semplice. Ho dato a Bruce Springsteen un sacco di tempo e un sacco di soldi, è stato in assoluto l’artista che più mi ha offerto un ponte di collegamento dal mio passato di metallaro e poco altro ad un presente in cui, a parte qualche sparuta eccezione, ascolto e apprezzo bene o male tutti i generi musicali, consapevole che costituiscono solo un mezzo espressivo per chi ha una reale urgenza di dire qualcosa.

Sono stato un fan di Springsteen per tanti anni, l’ho visto dal vivo diverse volte, in Italia e all’estero (niente a che vedere coi curriculum infinti di certi animali da pit ma rimango comunque sopra la media di un normale appassionato), ho dormito fuori dai negozi di dischi per recuperare i biglietti, quando ancora l’eCommerce non aveva monopolizzato il mercato, sono arrivato presto fuori dagli stadi per prendere un posto nel pit, ho preparato anch’io i miei bravi cartelli nel periodo in cui il nostro giocava a fare il Juke Box (uno me l’ha anche preso, a Torino, ma poi la canzone che c’era scritta la suonò solo qualche tour dopo) e tutte queste cose qui che gli springsteeniani, quando si incontrano al pub o a qualche raduno dedicato, amano raccontarsi per ore.

Ho sfiorato quel mondo e ne ho fatto parte, più o meno orgogliosamente, per qualche tempo, poi l’ho mollato. Non ero già più un fan all’epoca dell’ultimo tour, quello di “The River” che poi in alcune città c’era dentro più “Born in the Usa” e classiconi vari da populismo assortito. Ho mollato perché c’era in giro un sacco di roba più interessante che chiedeva la mia attenzione e perché il famoso “popolo springsteeniano”, spesso musicalmente ignorante e limitato, aveva nel frattempo assunto atteggiamenti da vero e proprio culto iniziatico (o forse era sempre stato così e non me ne ero mai accorto) divenendo sempre più un affare da commissione interna, ripiegato su se stesso, perennemente isolato da tutto il flusso di vita che scorre incessante in un universo musicale sempre più variegato col passare del tempo.

Ho detto tutto questo perché si capisca che Springsteen non ha mai smesso di interessarmi ma che, semplicemente, ho cominciato ad essere un po’ più obiettivo sui suoi passi recenti e, soprattutto, a contestualizzarlo all’interno di un universo ben più ampio.

Questo “Letter To You” non arriva inaspettato (di un disco registrato assieme alla E Street Band o se non altro di piani per registrarlo si parlava da tempo) ma di sicuro sorprende un po’ nelle tempistiche, considerato che “Western Stars” era uscito appena un anno prima, interrompendo un silenzio discografico che durava da sette anni, almeno parlando di album di inediti.

È stato dato ai fan un racconto toccante e ben studiato (poi magari è tutto accaduto davvero ma ciò non esclude che la narrazione sia stata confezionata alla perfezione) che parlava di una chitarra donata da un fan (italiano, tanto per confermare che i più grandi stalker del nostro siamo noi) fuori dal Walter Kerr Theater di Broadway dove si è esibito per un anno, nell’ormai celebre spettacolo di cui si è detto di tutto e di più, inutile ripetersi.

Da lì in avanti la storia è nota: ispirazione ritrovata, canzoni scritte nel giro di cinque giorni, tutte su quella chitarra, E Street Band radunata al gran completo come ai vecchi tempi, session di registrazione in presa diretta, come in pratica mai più accaduto dai tempi di “The Rising”.

Il risultato lo si sente e diciamo subito che è l’aspetto migliore di questo disco: il suono è bellissimo, caldo e potente, con l’impronta classica di questa band che si staglia in tutta la sua magnificenza, perfettamente riconoscibile nella sua personale identità (da questo punto di vista, pochi ensemble come la E Street possono vantare un marchio di fabbrica così forte). Era un qualcosa che mancava ed è bello che sia tornato, Ron Aniello (al secondo lavoro consecutivo con Springsteen) ha fatto un ottimo lavoro, riuscendo là dove Brendan O’ Brien non era stato forse sufficientemente abile.

Quindi questo è un disco della E Street Band e anzi, a memoria potrei dire che è uno dei pochissimi dischi in studio (forse l’unico?) che catturi davvero l’energia che questa formazione riesce a sprigionare dal vivo.

Sulle canzoni, invece, il discorso è un po’ diverso. Partirei dal dato più appariscente, vale a dire dalla presenza di ben tre brani, “Janie Needs a Shooter”, “If I Was a Priest” e “Song for Orphans”, risalenti a quasi cinquant’anni fa, al periodo precedente o successivo a “The Wild, The Innocent and The E Street Shuffle”. Sono titoli che i veri springsteeniani hanno negli archivi da secoli, registrate in versioni bootleg di dubbia qualità (io stesso durante un ozioso girovagare a Providence, Rhode Island, comprai un doppio cd con numerosi inediti chitarra e voce e ricordo che almeno due di quelle erano dentro) e sono diversi anni che si vocifera di una loro possibile inclusione nel fantomatico cofanetto “Tracks 2”, la cui uscita è stata fatta oggetto di rumors praticamente il giorno dopo la pubblicazione del primo volume.

Invece, senza nessun preavviso e con decisione francamente incomprensibile, eccoli qui, tre pezzi vecchi di decenni accanto ad altri nove composti di getto nell’arco di una manciata di giorni. E nessuno mi può levare l’impressione che non sia stata proprio una mossa astutissima. Già, perché il confronto è decisamente impietoso. Chiunque (e sottolineo chiunque), anche chi avesse ascoltato una sola canzone di questo artista in vita sua, potrebbe capire facilmente la differenza. Questi brani, pur rimessi a nuovo dall’arrangiamento avvolgente della nuova E Street Band, pur registrati ex novo e cantati dal Bruce settantenne di oggi, appartengono ad un’altra epoca. Un’epoca in cui il nostro aveva il sacro fuoco dell’ispirazione nelle vene, in cui imparava a memoria le lezioni del primo Bob Dylan elettrico e scriveva canzoni che riprendevano in gran parte quell’universo visionario, calandolo in un New Jersey stravolto, popolato da figure assurde e paradossali. Leggete anche solo due righe di testo e ditemi se lo Springsteen di oggi può avere scritto queste cose qui. E dico che non è stata una mossa astutissima perché il confronto è impietoso. Sia a livello musicale che di testi. Chiunque abbia battezzato “Ghosts” la nuova “Born To Run” (giuro che l’ho letto, e non una volta sola), a meno che non abbia le orecchie foderate di prosciutto o l’animo accecato dall’ideologia, non potrà non farsi travolgere da questo straniamento temporale: queste tre canzoni sono la cosa più strabiliante che abbia registrato da decenni, sono dei mezzi capolavori e da sole costituiscono un motivo più che sufficiente per comprare il disco. Peccato solo che non siano pezzi nuovi e che il resto della scaletta non sia altrettanto miracoloso.

In effetti, se una verità questo “Letter to You” ci deve consegnare, è quella che Bruce Springsteen pare ormai arrivato al capolinea come songwriter. Intendiamoci, non che sia mai stato questo autentico prodigio: ha avuto un periodo di ispirazione altissima, che è durata anche parecchio (facciamo almeno dieci anni dal 1973 al 1983) e ha poi vissuto di rendita, producendo ancora ottimi dischi e inanellando perle sparse qua e là nel corso del cammino. Ultimamente però, il suo scarnificare la canzone fino all’osso, il suo ridurla ai minimi termini per farne risaltare al meglio gli elementi portanti, ha condotto ad un impoverimento drastico della qualità della stessa. Lo si è visto con “Western Stars”, che pure godeva di un impianto coerente nei testi e almeno da quel punto di vista era un lavoro profondo, che aveva un senso.

Qui, anche sotto questo aspetto, c’è qualcosa che non funziona perfettamente. Arrivato ai suoi 71 anni, è evidente che stia pensando all’ultima stazione del viaggio e c’è un certo senso di commiato che aleggia per tutto il lavoro. La stessa “Ghosts” nasce dalla visita fatta sul letto di morte all’ex compagno nei Castiles George Theiss, tutto il testo è un commosso tributo a quegli anni di incertezze ma allo stesso tempo di assoluta libertà. E poi c’è “One Minute You’re Here”, inusuale apertura per un disco full band, ballata acustica e leggermente orchestrale, meditazione sommessa sul mistero della morte e sulla brevità dell’esistenza. E la stessa, conclusiva, “I’ll See You In My Dreams”, più sostenuta nel ritmo ma sempre in qualche modo malinconica, sembra scritta per evocare un nuovo ritrovarsi quando tutto sarà finito.

Ho sentito da più parti il commento “Sa che è il suo ultimo disco”: impossibile dire se abbia deciso così ma mi pare abbastanza evidente che, arrivati ad una certa età, ci si guardi un attimo anche indietro e si comincino a tirare le somme.

Niente di male in questo, così come niente di male nel fatto che, pur essendo questo un lavoro dalla chiara matrice rock, esprima a più riprese tinte autunnali e abbia molto più a che fare con la dimensione intima del cuore umano, un album che anche quando si lascia andare, lo fa sempre con un’ombra di malinconia in sottofondo.

Il problema è che i testi sembrano per lo più scritti utilizzando un generatore automatico. Le parole sono sempre quelle, la sintassi piana e quasi elementare, i concetti evocati semplici al limite della banalità, tutte cose già dette (e dette molto meglio) in passato. E se questo certificasse la storia dei brani buttati giù in fretta e furia? Potrebbe anche essere, la cosa certa è che, per la prima volta nella sua carriera, Mr. Springsteen ha prodotto dei testi che sono in tutto e per tutto al di sotto delle sue possibilità.

È un problema non indifferente ma per fortuna poi ci sono ancora le canzoni. E le canzoni, al netto di quello che si diceva prima sul calo di ispirazione, non sono poi malissimo. “Letter To You” e “Ghosts”, già uscite da tempo e già abbondantemente commentate da fan e addetti ai lavori, sono entrambe buone, per chi scrive la prima meglio della seconda (che sembra una versione alternativa di “Radio Nowhere” ma che comunque dice la sua, soprattutto con un bel ritornello), due pezzi sinceri con la band sugli scudi e che, immagino, costituiranno due momenti salienti dei futuri concerti, quando e se ci saranno.

Al momento ero rimasto un po’ così, poi sono cresciute con gli ascolti ma devo dire che mi cullavo nella speranza che avrei comunque ascoltato qualcosa di molto meglio. Non è successo e mi tocca ammettere che, fatta eccezione per il trittico scongelato dalle sabbie del tempo, i due singoli sono i brani migliori del disco. Sono affiancati, più o meno sullo stesso livello, da “Burnin’ Train”, cavalcata piacevole tenuta su da un grande Max Weinberg, efficace nonostante l’estrema linearità, che ha il solo difetto di voler sprigionare una carica erotica che poco si sposa con l’età del nostro (che dire, certe cose me le aspetto da Mick Jagger, non da lui). E poi “Rainmaker”, il pezzo politico di turno (ma anche qui, niente a che vedere con le rasoiate di “Magic” o “Wrecking Ball”), un certo feeling Western ed una non meglio precisata vicinanza al periodo “The Rising”. Di apertura e chiusura abbiamo già detto, massimo risultato col minimo sforzo, niente di memorabile ma senza dubbio piacevoli.

Il fondo, di conseguenza, lo tocchiamo solo nel trittico “Last Man Standing”, “The Power of Prayer”, “House of a Thousand Guitars”, sistemate tutte e tre di fila, a cavallo tra la prima e la seconda parte, come a dire “Via il dente via il dolore, sopporta per un po’ che poi passa tutto”: al di là del fatto che le prime due sono letteralmente identiche (le avesse posizionate agli estremi della tracklist magari non ce ne saremmo accorti ma così è una presa per i fondelli), il risultato è veramente agghiacciante. Tra pianoforti sdolcinati, soli di Sax che sono esplicite citazioni di “Bobby Jean” (a proposito, Jake Clemons praticamente non pervenuto, una prova molto al di sotto della sufficienza, per la gioia di tutti quelli che “Eh ma, io l’avevo detto, Clarence è insostituibile!”), linee vocali al limite dell’ammutinamento, arrangiamenti con poco mordente e un’eccessiva pulizia di suono, tocchiamo il fondo della produzione di Springsteen post 2002. Ora, ho meditato a lungo se scrivere che: “In confronto, anche cose come “What Love Can Do” e “Kingdom of Days” sono dei capolavori” ma alla fine ci ho rinunciato (cioè l’ho scritta ma per dire che non lo penso, non so se avete capito). In effetti nella discografia del nostro c’è pure una certa “Rocky Ground”, quindi no, questi tre pezzi non sono il peggio che abbia mai scritto ma quando mi dicono che abbia battezzato “House of a Thousand Guitars” come uno dei suoi brani migliori, qualche dubbio sul suo equilibrio mentale mi viene. È l’insieme di tanti fattori: l’immagine tremenda evocata dal titolo, il ritornello ripetuto fino alla nausea, il pianoforte da ballata zuccherosa, la band che si aggiunge nella seconda parte senza modificare l’impatto generale, una narrazione anti trumpiana che però non riesce a proporre nessuna proposta costruttiva che non sia un vacuo sentimentalismo.

Tirando le somme e considerando tutti i fattori, “Letter To You” è un lavoro discreto, coerente col profilo di un artista che rimane sempre un grandissimo performer ma che, almeno per chi scrive, dal 2007 in avanti non è più riuscito a fare un disco degno della sua fama. Non credo fosse lecito aspettarsi nulla di più e anzi, stiamo parlando di un lotto di canzoni decisamente superiore a tutto ciò che è arrivato da “Working On A Dream” in avanti, “Western Stars” compreso, nonostante quest’ultimo abbia dei testi di livello, come già detto.

Sono un po’ deluso ma neanche più di tanto: ci sono tre capolavori e che siano vecchi o meno non importa, l’importante è che ci siano. Il resto, a parte quel famigerato trittico, si ascolta volentieri e chissà, magari tra qualche anno saremo qui a parlarne molto meglio. Mi spiace ma io più in là di così non riesco ad andare, non me ne vogliate. Dopotutto non credo che nessuno tra gli springsteeniani accaniti sia qui ad aspettare il mio giudizio.


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