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REVIEWSLE RECENSIONI
27/11/2020
Lexsoul Dancemachine
Lexplosion II
Inventiva e groove da vendere. Si parla infatti di funk, toccato da tante influenze che lo rendono sempre vivo e in corsa. Loro sono i Lexsoul Dancemachine, sestetto estone attivo dal 2013 che mette sul piatto una quantità di ingredienti tutti da gustare.

Innanzitutto il sound dritto in faccia, una gestione sonora che sembra sempre sull’orlo di traboccare ma che in realtà si lascia puntualmente contare sulle dita di una mano degli elementi che la muovono.
Si strizza l’occhio al fake pur essendo tutto suonato, nel senso che le cose sono missate in maniera da essere pienamente sotto controllo tanto da sembrare in certi frangenti finte. Parlo delle percussioni, degli snap, i clap, tutti elementi che muovono il ritmo e che vanno occupare spazi di vitale congiunzione fra gli strumenti.
Intorno agli orpelli ed ai fiocchi c’è un drumming implacabile, un basso (Fender Precision, sicuro J ) suonato con tecnica e gusto, synth che giocano col panning e raccolgono in un unico ambiente chitarre e pianoforti tanto da farle sembrare legate e costrette al loro ruolo di gregari.
Così è e così deve essere. Un rigore sonoro che dà i suoi frutti e basta premere play per capirlo.

Vocalmente l’aria è credibilissima nonostante il territorio afrofunk disti anni luce dall’Estonia, o almeno questo pensavo. Certo, si sente che c’è un’ispirazione chiara di matrice sia black che white nel territorio classico che abbraccia dai Family Stone, ai Parliament, i Tower of Power, Michael Narada Walden e più nei giorni nostri i Jamiroquai.

La traccia di apertura Basics (feat. Luiz Black) stravolge nel senso finora descritto con un funk veloce e perfettamente architettato.

Nu Reality (Feat. Liis Lutsoja) continua l’esplorazione dei territori con maestria e con un‘iniezione ulteriore di sfarzosità tecnica, in questo caso nel basso, che riesce comunque nel difficile intento di non scavalcare l’imminente scalino del troppo. Tutto gira bene.
La scrittura. In effetti non emerge niente di memorabile nell’armonia e la soluzione è presto detta; è schiacciata dagli arrangiamenti davvero ben calibrati.
Vero è che questo genere vive di groove, sudore e tecnica (almeno in questo caso), valore aggiunto quest’ultimo per raggiungere un picco alto di risultato.

Parte Entertainment col tipico drumming reso celebre da Porcaro dei Toto con Georgy Porgy e questa è scuola. Un funk più posato, davvero molto più fake del groove quello vero, che almeno personalmente prediligo.
Dunque mi pare di essermi fatto un’idea precisa; come spesso capita in questi generi, l’arrangiamento sorpassa la scrittura, anche se il ritornello esce fuori con una punta di emozione vocale che ancora non avevo assaporato, e me lo segno.

Passa la successiva Pike Jaws, intera canzone basata su un groove di batteria e percussioni che degenera in un assolo, dove il valore tecnico e sonoro prendono chiaramente le redini e tengono in piedi l’equilibrio di un album. Non è così ovvio inserire un solo di batteria in un disco e farlo sembrare un giusto continuo del discorso tenuto finora dall’album intero.

La simpatica Money ha un ospite di eccezione in Cory Wong, virtuoso chitarrista dei Vulfpeck e più che va avanti il discorso e diventa puramente tecnico un po’ storco il naso, sarà gusto personale, ma in un attimo diventa circo, diventa featuring e lavoro, che ha poco a che vedere con le matrici e le premesse. Sarà anche giusto così nel 2020 e non necessariamente negativo, sta di fatto che Money è il pezzo più orecchiabile dell’album.

Carambola Jelly sembra un episodio tecnico con un cantato sopra, a tutti gli effetti davvero ben riuscito.
Mi trattengo dallo skippare ed arrivo fino alla fine passando da un momento di solo pianistico dove si respira tutta la scuola, più che il talento. Di certo, un sicuro bel momento concertistico.

Parte Sex e l’ispirazione motivatrice di George Clinton si fa sentire tutta riuscendo a tenere in piedi un brano carico e silenzioso ancora orchestrato in maniera impeccabile. Stavolta l’interplay tra la ritmica e l’organo è il valore aggiunto che spalleggia i coinvolti interventi vocali.
Esplode un bel ritornello che trasforma una canzone già bella in un qualcosa di prezioso per la sua struttura irregolare. E la coda lascia respirare libertà espressiva in una dimensione finalmente non ingabbiata dalle parti scritte.

La chitarra lancia Supersoul e siamo sulla strada che chiude l’album. Decidono stavolta di percorrere un territorio piuttosto complesso e ostico forse per via del ritmo così saltellante e sincopato, fatto sta che per la prima volta in tutto l’album sembra si sia spento d’un tratto il bottone della produzione in favore di una registrazione fatta dal vivo a tutta la band insieme. C’è qualcosa di meno nel sound, ma anche qualcosa di più che finora era nascosto.
Certo, magari sarà un’impressione, ma suona tutto più piatto, tutto più nelle loro mani e pur essendo impeccabile diventa palese come manchi l’apporto del lavoro centellinato di produzione sonora.
Mi rimane l’impressione che in chiusura si siano mostrati un po’ più nudi, a compimento di un disco che li erge a mio avviso in un punto molto alto del funk nostrano da tenere d’occhio, ma privi forse di uno spunto armonico e pop che li possa rendere davvero completi.


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