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REVIEWSLE RECENSIONI
22/12/2022
Jack McDuff
Live at Parnell’s
Organista tra i più attivi e rimpianti nel genere che si incastra tra il jazz e il soul, Jack McDuff nei suoi quarant’anni di carriera ha lasciato un segno indelebile, perfettamente riconoscibile come il suono del suo organo mentre subisce l’effetto delle sue instancabili e ritmiche mani.

Il Live at Parnell’s documenta una settimana di esibizioni nel celebre night club di Seattle nel corso del 1982. E curioso come nei confronti della fonte audio da cui è stata estrapolata la registrazione sia stato effettuato un vero e proprio restauro, vista la qualità precaria in cui si era presentata.

La qualità della tecnologia digitale odierna ha permesso a quanto pare un autentico miracolo. Un miracolo dalle molteplici forme, perché il salvataggio dei nastri in equilibrate e insperate forme d’onda ha concesso ai quattro protagonisti di far respirare il loro di miracolo.
Il batterista Garrick King, il chitarrista Henry Johnson, completati da Danny Wollinski al sax, sono in forma strepitosa, si ascoltano e sono insieme, e completano la band di Jack McDuff suonando a braccetto, dialogando di continuo, sia che si parli di standard jazz che si prolungano decisi nel minutaggio, sia che si parli di composizioni originali.
Jack McDuff si occupa chiaramente anche della parte bassistica in maniera impeccabile, destreggiandosi su un gusto sonoro, un possesso del ritmo ed un uso della dinamica che rendono il concerto immersivo. Cosa che accade in “Untitled D Minor”, coadiuvato dai solismi di un Wollinski davvero su di giri, o su “Blues in the night”, dove la mano destra di McDuff fa faville, insieme al suono asciutto e pulitissimo della sei corde di Johnson.

“Dejà vu”, cover firmata tra gli altri da Isaac Hayes, spicca per questa evidente distorsione sulle basse del woofer collegato al leslie di McDuff, cosa che dona un sapore di realtà respirabile. “A night in Tunisia”, firmato da Dizzy Gillespie, rinvigorisce il linguaggio sonoro, con la sua intro tra il folle e lo scherzoso, risolta con un gioco armonico che vince.
C’è spazio anche per il classico “Take the A Train” che nonostante il sapore più leggero donato dalla popolarità raggiunta ai nostri orecchi rispetto magari al resto dell’album decisamente più ricercato, si scioglie perfettamente nella pozione sprigionata dall’album e da tutti i 15 brani.
“Wives and lovers” di Bacharach fa la parte dell’anonima, con un tema che invece stavolta appare forzato in questa scaletta, tanto che la canzone respira quando torna a calcare il terreno dello swing e dell’improvvisazione, cosa che non si può dire per “Walkin’ the dog”, originale dello stesso McDuff, dotato di una scrittura che parla una lingua congeniale al quartetto.
“Blues 1 & 8” chiude metaforicamente questa raccolta di canzoni in giorni ravvicinati, e lo fa al meglio toccando un picco alto di ispirazione e di insieme dei quattro musicisti. Ed è curioso notare le piccolissime differenze di riprese audio tra i giorni diversi, una volta con la batteria lontana, o col woofer che distorce, o col vociare e le incitazioni dei musicisti che si fanno in certi casi più percepibili.

Rimane l’evidenza di un documento imperdibile per gli amanti del genere soul jazz e del sudore trasmesso dai live nei club, quando un artista lavorava per un paio di settimane di fila in un posto e l’odore dell’ispirazione musicale sprigionata in quei piccoli locali, di cui quasi si contano gli applausi, doveva essere davvero pregnante.