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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
28/11/2022
Los Lobos
Live at the Fillmore
L’uscita di Live at the Fillmore nel 2005 costituisce una tappa importante per la band di East Los Angeles. Non solo rappresenta il primo documento dal vivo pubblicato dai Los Lobos, ma celebra pure un’attività all’epoca già trentennale. Riviviamo insieme un concerto ove convivono abbracciati sullo stesso palco tex-mex, blues, rock 'n' roll, country e folk messicano.

I Los Lobos sono uno di quei rari gruppi che trasformano ogni location in un posto speciale. Detto questo, alcuni luoghi sono già particolari per loro qualità e il Fillmore di San Francisco incarna miticamente l’epicentro della rivoluzione musicale psichedelica della Bay Area, avendo ospitato, per merito del leggendario Bill Graham, ensemble indigeni del livello di Jefferson Airplane e Grateful Dead, dato spazio a formazioni come i Doors e la Butterfield Blues Band, ad artisti del calibro di B.B. King e Jimi Hendrix, fino a pescare oltreoceano con Cream e Pink Floyd. Insomma l’accoppiata Los Lobos-Fillmore è assolutamente scoppiettante e le selezioni per questo album abbracciano l’intera carriera senza dimostrare alcun calo nella qualità del songwriting, addirittura per certi versi migliorato, più eclettico e autentico. Se le prime composizioni risentono, nello stile e nell’interpretazione, dei loro idoli Ray Charles e Bobby Blue Bland, ora vi è più versatilità, non si enfatizza solo il lato blues rock, ma si scivola quietamente in un groove dopo l’altro aggiungendo country, folk messicano e, perché no, pure un’iniezione di pop soul, come nel sorprendente bis, in cui viene omaggiato Marvin Gaye e la sua imprescindibile "What’s Going On".

L’interpretazione è struggente e ha un’implicazione sociale, poiché i Los Lobos stanno implorando con l’anima le comunità di ogni tipo (famiglie, città, nazioni) a fare il punto sulle loro azioni e in ogni parentesi difficile dei tempi moderni tale canzone è rimbombata tra i quartieri del mondo come simbolo di riappacificazione, oltre ogni barriera creatasi. L’attualità di questo brano è purtroppo ancora tristemente nota fino al giorno d’oggi, periodo terribile in cui l’umanità associa il progresso unicamente alla tecnologia perdendo possesso di intelletto e ragione a favore di un pensiero unico dominante, senza capacità di spirito critico.

I poliedrici David Hidalgo e Louie Pérez, la chitarra dura e il canto avvolgente di Cesar Rosas, il sassofono, il flauto e le tastiere dell’istrionico Steve Berlin unite al basso pulsante di Conrad Lozano rendono unico il sound di questi artisti, potenziati dalla doppia batteria di due sessionmen inimitabili, i poderosi e schioccanti Cougar Estrada e Victor Bisetti, una vera tempesta di percussioni.

 

“Siamo americani, cresciuti in mezzo a tutti gli altri. Abbiamo sempre pensato che la musica sia patrimonio di ognuno di noi, non solo di un particolare gruppo etnico o di una certa età. L’abbiamo sempre ritenuta universale”.

 

David Hidalgo descrive alla perfezione ciò a cui si assiste a un concerto dei Los Lobos. I suoni, le armonie, le melodie e l’atmosfera sono continuamente cangianti, il loro approccio è globale e par di ricevere un caloroso abbraccio, mentre si ascolta la loro musica. Dal ruggito iniziale di "Good Morning Aztlàn" al grintoso rombo alla Bo Diddley della seguente "I Walk Alone", per poi passare nel blues paludoso di "Charmed" si percepisce che i “ragazzi” conoscono, e bene, anche le radici del rock e dell’r&b. E quando ci si potrebbe abituare a tali ritmi ecco subentrare brani a sud del confine a stelle e strisce come "Maria Christina", "Luz De Mi Vida" e "Maricela", per ricordare le loro origini messicane.

Una chicca della performance sono sicuramente i sette minuti vibranti di "The Neighborhood", un classico dall’omonimo lavoro del 1990, suonata in modo straordinario e sentito, fragrante e genuina, vissuta intensamente, come se fosse una delle prime volte ad essere eseguita live. Le chitarre grondano di richiami ai maestri delle dodici battute, con riff brutali e sporchi che citano John Lee Hooker e Otis Rush, mentre il racconto della triste esistenza in periferia di una famiglia povera, relegata ai margini della società, diventa nei versi finali grido di speme e riscatto, con la convinzione che il tempo possa sistemare la brutta situazione: “Sono solo canzoni cantate in una strada sporca. Gli echi della speranza giacciono sotto i loro piedi. Lottano duramente per arrivare a fine mese. Grazie Signore per un altro giorno, aiuta mio fratello nel suo cammino. E ti prego, porta la pace nel quartiere. Grazie Signore per un altro giorno.”

 

Hidalgo (chitarra, violino, fisarmonica, percussioni e voce) e Rosas sono gli autori della maggior parte delle canzoni, talvolta coadiuvati dal “poeta” Pérez, concentrato spesso nella stesura delle liriche e nelle esibizioni live dedito anche alla batteria, oltre che al canto e all’amata sei corde. La ballata "Tears of God, Viking" (con ospite Vincent Hidalgo, figlio di David, e la sua bruciante chitarra elettrica) e "How Much Can I Do" nascono proprio dalla collaborazione tra lui e Hidalgo: l’ultima citata rappresenta un altro degli highlight del concerto, scatenata tempesta cajun resa unica da un accordion indiavolato.

“I Lupi”, questo il nome del gruppo tradotto in italiano, non deludono nemmeno nella hit "Kiko and the Lavender Moon" proveniente da un altro disco celebre, Kiko, il maggior successo commerciale avuto escludendo "La Bamba" (ve la ricordate? La loro rilettura per il film uscito nel 1987 fu un tormentone anche in Italia) e seguita da quel trionfo del ritmo presente nella tonica "Cumbla Raza", geniale creazione partorita dalla mente di Rosas, perfetta per chiudere il set prima dell’encore. Una menzione particolare la merita "Rita", brano estratto dall’allora appena pubblicato The Ride, robusto rockettone forte della cangiante e sempre ispirata penna dell’accoppiata Pérez/Hidalgo.

 

“I miei primi giorni a fianco di David Hidalgo rimangono indimenticabili. Eravamo all’inizio degli anni Settanta, suonavamo le chitarre, ascoltavamo dischi e provavamo a scrivere canzoni: ricordo che lui mise su un album di Randy Newman, poi Music of My Mind di Stevie Wonder e Runt di Todd Rundgren. Avevo già in mente la lezione dei Byrds che interpretavano Bob Dylan e poi, naturalmente, adoravo Smokey Robinson. Non era solo un discorso di groove, occorreva prendere tutte queste esperienze e tradurle in un modo originale, mettendoci del nostro, con sacrificio, rispetto e attenzione”.

 

Louie Pérez non dimentica i difficili inizi, la condivisione del progetto e i sogni ad occhi aperti, poi diventati realtà, fatti insieme agli altri due membri storici Cesar Rosas e Conrad Lozano (Steve Berlin arriverà una decina d’anni dopo). Allora si chiamavano ancora Los Lobos del Este (de Los Angeles). Quanta strada hanno fatto. Dalle collaborazioni con Tom Waits, Elvis Costello alle performance insieme a Neil Young ed Eric Clapton fino ai recenti show in connubio con la Tedeschi Trucks Band. Da album seminali come How Will The Wolf Survive (1984) ai recenti lussureggianti Tin Can Trust (2010) e Native Sons (2010), trionfo di contaminazioni rock, blues e latine.

Ora occorrerebbe solo una cosa per mettere la ciliegina sulla torta alla carriera di questi artisti, istituzione della Vera America: vederli indotti nella Rock and Roll Hall of Fame. Il tempo in genere è galantuomo e non dimentica le ingiustizie, speriamo ciò avvenga già nel 2023, se lo meritano. E la Musica se lo merita.