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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
08/05/2019
dEUS
Live report - Circolo Magnolia, 28 aprile 2019
Era pieno, il Magnolia. Un sold out categorico, forse sorprendente ma facilmente spiegabile, non appena si arriva sul posto e si dà un colpo d’occhio in giro: questa è una serata per reduci.

Solo chi c’era nel 1999 può capire che cosa sia stato “The Ideal Crash” all’interno della scena rock di allora (io quindi no, scrivo solo per sentito dire). Un disco che, nell’ultimo anno del secolo, arrivava ad aprire nuovi orizzonti proprio quando ci si stava domandando se, col nuovo millennio in arrivo e con le principali correnti artistiche di quel periodo in progressivo esaurimento, qualcos’altro di innovativo sarebbe mai potuto ancora accadere. “The Ideal Crash” ha dato probabilmente risposta negativa a questa domanda: l’innovazione, se di innovazione si poteva parlare, sarebbe stato appannaggio di pochi casi isolati, che non avrebbero mai potuto fare scuola. Per tutti gli altri, ci sarebbe stato il prendere a modello questa o quella corrente, questa o quella band, con, al massimo, la capacità di aggiornarne o personalizzarne la proposta. Detto in poche parole, fatte salve pochissime eccezioni (vedi “Kid A” dei Radiohead) i più grandi innovatori sarebbero stati i migliori riutilizzatori del materiale del passato (in questo senso, James Murphy ed i suoi LCD Soundsystem furono insuperabili).

“The Ideal Crash”, da questo punto di vista, rimane un caso isolato. Totalmente diverso da quello che “Worst Case Scenario” e “In a Bar, Under the Sea”, i primi due lavori della band di Anversa, avevano fatto intravedere, questo terzo disco è stato immediatamente salutato come un capolavoro e non ha perso una sola goccia di fascino nel corso degli anni, semplicemente perché contiene canzoni meravigliose, totalmente prive di difetti. La parola “perfezione” non è umana, certo, ma possiamo capire cosa si intenda, nel momento in cui la associamo ad un’opera d’arte. Ecco, “The Ideal Crash” è uno di quei (pochi) dischi che non si possono non definire perfetti; quei dischi dove tutte le canzoni sono belle, indispensabili, non c’è una nota fuori posto; e dove, cosa ancora più importante, c’è una profondità di fondo che non permette di capire tutto subito, che fa sì che al termine di ogni ascolto si senta il bisogno di ricominciare da capo e che ogni volta, anche a distanza di anni, si riscoprano particolari nuovi.

Se non è diventato uno degli album più importanti della storia del rock è solo perché il suo contenuto è troppo difficile per poter conquistare milioni di persone (si è fermato a 250mila copie vendute, se non sbaglio; sono senza dubbio poche per il suo reale valore ma a conti fatti non è un risultato così assurdo) e, particolare decisivo, non ha potuto godere di un vero e proprio hit single, che avesse le potenzialità di ammazzare le classifiche (“Instant Street” è andata bene e ancora oggi se la ricordano in tanti ma due anni prima con “Karma Police”, per dirne una, le cose erano andate un po’ diversamente).

Che poi (è questo il paradosso), se lo confrontiamo coi due titoli che sono venuti prima, questo qui è roba commerciale della peggior specie. Ci sono senza dubbio più melodie, più ballate, più ritornelli, un utilizzo più convenzionale del violino, tempi maggiormente “diritti” e strutture decisamente meno complesse che in precedenza. Detto questo, la stratificazione sonora, la pluralità delle soluzioni in sede di arrangiamento e la libertà espressiva che i nostri si prendono nello sviluppo dei singoli brani, fa sì che ci sia molto ma molto poco che l’ascoltatore occasionale, che è poi quello che nella stragrande maggioranza decreta il successo di un disco, possa trovare commestibile.

Tutto questo per dire che sono passati vent’anni dall’uscita di quel disco. Una ricorrenza tonda che, come ormai è prassi assodata, ha dato l’avvio ad un tour celebrativo, dove quel famoso terzo lavoro viene suonato nella sua interezza. Operazioni di questo tipo, dico la verità, mi hanno sempre lasciato freddo, almeno a livello puramente razionale, ma in questo caso la situazione è un po’ diversa: la formazione che ha realizzato “The Ideal Crash” non esiste praticamente più ma è altrettanto vero che i dEUS, o meglio Tom Barman e Klaas Janzoons, unici superstiti di quel periodo, hanno sempre mantenuto alta la credibilità ed il livello qualitativo delle uscite successive. Non saranno più gli indefessi ricercatori delle origini ma anche la veste che hanno preso dai Duemila fino ad oggi, di elegantissima e raffinata Rock band, perfetta nei suoni e scintillante nelle melodie, è davvero qualcosa che non si può buttare via e fa loro onore, considerata la fine squallida che hanno fatto tanti dei protagonisti dei Nineties.

Per cui sono andato a vederli senza esitazione, contento di potere assistere all’esecuzione di un capolavoro di quelle proporzioni.

Era pieno, il Magnolia. Un sold out categorico, forse sorprendente ma facilmente spiegabile, non appena si arriva sul posto e si dà un colpo d’occhio in giro: questa è una serata per reduci. Facile pensare che gran parte dei presenti non veda normalmente più di due-tre concerti l’anno, sempre di natura simile. E qui, se proprio volessimo fare polemica, si potrebbe innestare un’ulteriore riflessione: è giusto che la musica divenga un rifugio per tornare a contemplare la propria giovinezza, per rivolgere uno sguardo malinconico ad un (presunto) periodo in cui le cose funzionavano e si era tutti più felici?

Difficile rispondere. Io personalmente dico da tempo che nel momento in cui mi accorgerò di ascoltare più i dischi del passato che quelli del presente, capirò che sarà arrivato il momento di prepararsi alla fine (la mia, intendo). Ma sono conscio del fatto che non tutti la pensano come me e non mi arrogherò certo il diritto di decidere quello che la musica debba o non debba fare.

Parliamo del concerto, che poi alla fine lo scopo del suddetto scritto avrebbe dovuto essere questo. Chi ha visto i dEUS dal vivo saprà perfettamente che sono una macchina da guerra e anche in questa occasione non si sono smentiti.

Hanno aperto, come tutti si aspettavano, con “Put the Freaks Up Front” ed hanno chiuso, cosa altrettanto scontata, con “Dream Sequence #1”. In mezzo, gli altri otto brani da “The Ideal Crash”, in un fluire incantevole di emozioni, con una resa sonora più che soddisfacente ed una naturale alternanza tra i passaggi più melodici e quelli più violenti, spesso e volentieri all’interno dello stesso brano (l’esplosione finale di “Instant Street” o le suggestioni psichedeliche della title track sono stati momenti altissimi). Tutto funziona benissimo, anche i quattro ballerini che si presentano a più riprese, disegnando coreografie improbabili e molto probabilmente superflue, ma comunque non sgradevoli.

Tom è su di giri, indossa una polo arcobaleno che è un vero pugno nell’occhio (totalmente anni ’90, quindi), prova spesso il suo italiano col pubblico ed invita tutti (questa volta in inglese) a recarsi dopo il concerto in una apposita “Confession Room”, per registrare dei ricordi relativi al disco che, se la band lo riterrà necessario, verrà inserito in un documentario di futura uscita. Nel frattempo, per dare avvio alle celebrazioni, la Jezus Records ha pubblicato un’edizione speciale del lavoro, contenente un secondo disco zeppo di demo, remix e versioni live.

Non è la formazione originale a suonarlo ma è comunque la più recente incarnazione della band e lo hanno interpretato alla grande, pienamente dentro lo spirito dell’epoca, in maniera filologicamente ineccepibile, facendone però allo stesso tempo risaltare l’enorme attualità. Probabilmente è per la sua varietà, per il suo carattere multiforme, ma ad ascoltarlo oggi, “The Ideal Crash” non è assolutamente un disco legato ad un periodo storico ben preciso, potrebbe essere stato composto in qualunque anno.

Tre quarti dello show vanno via così e, tra parentesi, non era neppure necessario che ci fosse altro. I cinque però vengono richiamati a gran voce e ritornano sul palco per due giri di bis, con altri quattro brani in totale. Questa parte normalmente cambia ogni sera, noi ci siamo beccati due versioni pazzesche di “Quatre Mains” e “Fell off the Floor, Man”, durante le quali il gruppo ha spaccato tutto, dandoci dentro con Stop and Go, distorsioni e sghembi ritmi Jazz, mostrando con disinvoltura quello che era in grado di fare agli esordi. C’è poi una suggestiva e delicata “Hotellounge” ed una “Roses” ossessiva e martellante nel ritmo, un finale di deflagrazione elettrica che chiude in maniera ideale quello che senza difficoltà sarà uno dei miei dieci concerti dell’anno, e forse non solo.

Al di là di tutto, è stata una parentesi legittima: i dEUS hanno celebrato il loro materiale più famoso ma siamo certi che nuova musica sia un arrivo e che varrà senz’altro la pena di ascoltarla. Speriamo che anche la maggioranza dei presenti a Milano penseranno lo stesso.


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