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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
14/12/2021
The Jesus And Mary Chain
Live Report The Jesus and Mary Chain, 12/12/2021, Alcatraz
Resa acustica impeccabile, versioni filologicamente ineccepibili e una scaletta eseguita in maniera semplice ma pulita e piacevole. Un concerto per nostalgici, certo, ma quello dei Jesus and Mary Chain all'Alcatraz è stato comunque davvero un bel concerto.

Ne ho scritto più volte, è un mio chiodo fisso e mi accorgo di diventare sempre più insistente man mano che invecchio: le reunion mi rompono il cazzo. Non tanto le reunion in senso puramente tecnico (che poi contano anche queste, eh! Fatta salva tutta la disperazione per la prematura scomparsa di John Lennon, di cui si è ricordato pochi giorni fa l’anniversario, c’è una parte molto cinica di me che non riesce a smettere di pensare che se non altro questa tragica circostanza ci ha risparmiato di trovarci i Fab Four come headliner al Firenze Rocks), quanto la continua rivalutazione e commercializzazione del passato, per cui c’è tutta una fetta di pubblico che preferisce spendere i suoi soldi per vedere per l’ennesima volta una band che ha vissuto la sua stagione d’oro alla metà degli anni ’80, piuttosto che provare a capire se i nostri tempi offrano qualche cosa di nuovo e fresco da guadare.

Lo ripeto per l’ennesima volta: capisco il desiderio di rinverdire i bei tempi andati e capisco anche in parte il fatto che quando hai militato per decenni in un gruppo poi diventi difficile mettersi a fare altro (anche se poi le eccezioni sono il vero segno di grandezza, vedi su tutti un David Byrne che non mi risulti abbia una voglia matta di resuscitare i Talking Heads, o ancora i Led Zeppelin che da tempo rinunciano ai guadagni più che faraonici che un tour mondiale porterebbe loro), capisco le spietate leggi di un mercato sempre più passatista, però magari anche basta, dai. Una band dal ciclo vitale limitato, dai cinque ai quindici anni al massimo, ecco quello che auspico. Una band che rimanga sulla scena giusto il tempo necessario per vivere il suo periodo di fecondità e poi si sciolga, coi componenti che inseguano altre esperienze, altre visioni. Un sogno? Probabilmente sì, ma lasciatemi comunque dire che, se mai sarò ancora vivo tra vent’anni e ci sarà in giro l’ennesima incarnazione degli Idles, qualcuno mi uccida se mai dovessi andarci.

Chiuso questo preambolo, cerchiamo di capire che cosa abbiamo visto all’Alcatraz in una gelida sera di metà dicembre, quando, contro ogni previsione, un concerto programmato ad aprile 2020 e rinviato due volte, si è tenuto nel periodo in cui francamente pareva più improbabile potesse tenersi.

 

Il locale di via Valtellina, da pochissimo tornato a pieno regime, non è sold out ma ci va vicino, con un’affluenza più che rispettabile; l’età media, ahinoi, è parecchio elevata e questo non può non avere a che fare con le premesse di cui sopra: i Jesus and Mary Chain sono un gruppo del passato. Poco importa che si siano riuniti una decina di anni fa con un nuovo disco e che (pare) ne abbiano in programma un altro per il 2022; gli scozzesi hanno avuto il loro periodo di gloria alla metà degli anni ’80, quando un’opera prima come Psychocandy ebbe un ruolo di primo piano nella nascita del fenomeno Shoegaze e permise ai suoi autori di prendere parte all’epopea della Creation Records di Alan McGee. Senza nulla togliere ai dischi successivi, capitoli di una storia che è andata avanti ininterrottamente fino al 1998, l’esordio e il successivo Darklands sono a conti fatti gli unici motivi per cui ce li ricorderemo per sempre.

Ce lo ricorda lo stesso Jim Reid quando sale sul palco, poco dopo il set dei connazionali Magnetic Rev che mi sono colpevolmente perso causa ritardo: “Stasera succederà questo: nella prima parte suoneremo tutto Darklands, poi faremo una pausa di cinque minuti e torneremo per farvi un altro po’ di canzoni”. Boato del pubblico ma ovviamente lo sapevamo già tutti. Non c’è una ragione numerica dietro un’iniziativa del genere (il tour era programmato per il 2020, a 33 anni di distanza da quel disco) ma è fin troppo evidente che autocelebrare i propri successi sia il modo più sicuro che gruppi del genere hanno per riempire i locali. Sono mosse inutili, sapete come la penso, ma se non altro danno la possibilità a noi che all’epoca non c’eravamo, di poter illuderci di rivivere la storia. Ma il passato non torna indietro: i fratelli Reid oggi sono dei tranquilli sessantenni padri di famiglia, ben lontani dai ragazzi turbolenti che trent’anni fa suonavano dando le spalle al pubblico, scatenavano risse gigantesche nei locali e consumavano allegramente anfetamine. Oggi sono tranquilli e sereni, si esibiscono per compiacere i loro fan, suonando quello che i fan vogliono e non hanno più problemi a farsi vedere, visto che le luci sul palco, dopo le primissime canzoni a luminosità bassissima, si sono sbizzarrite a mostrarli in azione in tutti i colori possibili. Provoca un brivido lungo la schiena dirlo, ma anche gli Smiths sarebbero finiti così, se non si fossero sciolti quando era più che giusto che lo facessero.

Comunque non prendete queste mie parole (mi rivolgo ai due o tre che le leggeranno) per una critica gratuita. Il problema io ce l’ho con l’opportunità di certe iniziative, perché poi il concerto in sé è stato bello. Darklands è l’album che ha addolcito il suono dei Jesus and Mary Chain, mantenendo la carica melodica degli esordi ma smussando notevolmente i suoni, con le distorsioni sature e ad alto volume a lasciare il posto ai suoni puliti e alle chitarre acustiche. Il successo commerciale che ne è seguito ha rappresentato una logica conseguenza di quella scelta ma non stiamo solo parlando di un Best Seller: per queste dieci canzoni per mezz’ora di musica la parola “capolavoro” può essere spesa senza nessun problema.

 

Photo courtesy: Lino Brunetti

 

Resa acustica impeccabile, versioni filologicamente ineccepibili, ad opera di una formazione che oltre al nucleo fondante dei fratelli Reid (Jim dietro il microfono e William alla chitarra) vede ormai in pianta stabile Scott Von Ryper alla seconda chitarra, Brian Young alla batteria e Mark Crozer al basso (la palma del vincitore assoluto va a quel fan che indossava una t-shirt del suo progetto parallelo Crozer and the Rels).

Viaggiamo attraverso la scaletta in maniera pulita e piacevole, cullati dalle melodie vocali di Jim Reid (la sua ugola ha resistito al passare del tempo e la sua prova è assolutamente convincente) e ai famosi fraseggi chitarristici di William, vero marchio di fabbrica di questo disco, così come il Wall of Sound distorto lo era del primo. La prima parte del concerto rispecchia infatti la dolcezza e la malinconia dell’album, con qualche accelerazione in più durante “Happy When It Rains”, “Fall” e “Cherry Came Too”. Dicevamo, esecuzione scolastica, presenza scenica così così (non che ci aspettassimo il contrario, comunque) ma che ha saputo restituire la bellezza di un lavoro che, a distanza di tre decenni, ha conservata intatta tutta la magia.

Dopo la breve pausa i cinque rientrano per una selezione di repertorio neppure così scontata, se si pensa all’occasione. Ci sono alcune Bside del periodo Darklands (“Happy Place”, “Everything Alright When You’re Down” e la roboante “Kill Surf City”) caratterizzate da un suono molto più sporco rispetto ai brani del disco (in particolare durante l’ultima la chitarra di William Reid ha raggiunto livelli assurdi di distorsione), la vecchissima Outtake “Up Too High”, unitamente ad alcuni episodi tratti dagli album successivi, dalle delicate “God Help Me” e “Come On” alle più elettriche e rockeggianti “Drop”, “Moe Tucker” e “I Love Rock ‘n’ Roll”, oltre al graditissimo classico “A Taste of Cindy”.

Obbligatori i bis con due tra i più celebri estratti da Psychocandy, vale a dire “Never Understand” e quella “Just Like Honey” vero e proprio manifesto di un’epoca e di un genere (considerazione abusata e frase fatta quanto volete, ma è la pura verità), con due elementi dei Magnetic Rev che raggiungono il gruppo per dei cori totalmente superflui. Wall of Sound a manetta, feedback e saturazioni nel finale, e si va via tutti contenti.

Ne è valsa la pena, tutto sommato. Sarà stato anche un concerto per nostalgici ma è stato un bel concerto. E se anche loro si sono divertiti (come in effetti è sembrato), tanto meglio. E poi lasciatemelo dire nuovamente: mancava vedere un concerto tutti ammassati, per quanto non avrei mai creduto di poterlo pensare.

 

Photo courtesy: Lino Brunetti