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REVIEWSLE RECENSIONI
21/03/2024
Cast
Love Is The Call
Il ritorno dei Cast, dopo uno iato di sette anni, con un disco che tira a lucido l'essenza del brit pop attraverso undici canzoni di scintillante bellezza.

Meno noti dei coevi Oasis e Verve, ma non per questo artisticamente meno rilevanti, i Cast hanno pubblicato, tra il 1995 e il 1999, tre album che sono autentici gioiellini di quel movimento che siamo soliti chiamare brit pop. Capitanati da John Power, bassista di quel leggendario gruppo, i La’s, che con un solo disco hanno indicato le coordinate del nascente genere, i Cast hanno mollato le scene a inizio millennio, per ricomparire dieci anni dopo, pubblicando due lavori (l’ultimo è del 2017) che testimoniavano un ritrovato stato di forma.

Dopo sette anni, ecco il terzetto originario di Liverpool tornare nei negozi con un nuovo album che qualitativamente riporta la band ai livelli degli anni gloriosi. E lo fa in un momento in cui il brit pop sembra vivere una seconda giovinezza: i Shed Seven hanno conquistato la prima piazza delle classifiche inglesi, i Kula Shaker hanno appena pubblicato uno dei migliori dischi della loro storia, Pulp e Blur fanno il tutto esaurito negli stadi, mentre è da poco uscito un album che vede collaborare Liam Gallagher e John Squire.

Nostalgia canaglia, verrebbe da dire, se non fosse che il terzetto guidato da John Power si ripresenti ai propri fan con un lavoro che, per quanto strettamente connesso con quelle sonorità nineties, risulta figlio di un ispirato e scintillante songwriting. Chitarre croccanti, melodie accattivanti e deliziose armonie vocali, sono la forma e la sostanza di undici canzoni che solo apparentemente suonano come clichè di un’epoca passata, ma che, ascolto dopo ascolto, crescono esponenzialmente grazie ai giochi di prestigio di una scrittura diretta ma anche ricca di momenti imprevedibili.

Bastano un minuto e trenta secondi per essere risucchiati dai solchi di Love Is The Call, basta quell’incipit, "Bluebird", una delizia folk pop, breve ma potente, per catturare i battiti del cuore, incredibile sintesi del meglio del suono inglese, coagulo di reminiscenze che portano a Bowie e a McCartney. E quando parte la successiva "First Smile Ever", con quei riverberi gospel in sottofondo, sembra di essere tornati nel cuore degli anni ’90, il ritornello irresistibile e quel mood che fonde leggerezza e nostalgia, esuberante allegria e il retrogusto dolce amaro della malinconia.

E’ il meglio del brit pop, fuori tempo massimo, forse, ma ancora incredibilmente fresco e accattivante. Provate, allora, a trattenervi dal canticchiare il ritornello di "The Rain The Falls", con quell’atmosfera mod inebriante e nebulosa, un brano minaccioso e scanzonato al contempo, che intreccia splendide armonie vocali con un cambio di tonalità che fa atterrare la canzone dolcemente dopo essere stata lanciata nella stratosfera. E che dire di "Far Away", un brano che sembra rimbalzare grazie a un ritornello appiccicoso, che gonfia l’anima a dismisura e che induce a una strana sensazione, in cui lacrime e gioia si fondono in un inebriante momento di estasi?

Tutto in questo disco è di bellezza cristallina, la voce di Power sembra la migliore che abbia mai avuto e la chitarra di Liam "Skin" Tyson, suona energica, sciolta ma serrata, dando al disco una velocità ariosa, più contigua al rock’n’roll che al pop (ascoltare il riff della psichedelica "Love You Like I Do" o quello della title track).

In scaletta, non c’è una sola canzone che non sia degna di nota, un ritornello che non spinga a cantare a squarciagola, che sia l’ispida "Starry Eyes" o siano le distorsioni della rumorosa "I Have Been Waiting", tutto si infila in testa alla velocità della luce, si memorizza la bellezza della melodia, ciascuna delle quali brilla di luce propria in un contesto di perfetta coesione.

E se non bastasse, sul finale arrivano i due brani migliori del lotto, "Time Is Like A River", mid tempo immerso in sentori psichedelici anni ’60, ritornello beatlesiano e contrappunto straniante di una tromba inaspettata, e "Tomorrow Call My Name", capolavoro di scrittura, in cui un gentile arrangiamento d’archi avvolge un suono che fonde sixties e Verve, verso un finale che strapazza il cuore d’emozioni.

A produrre c’è Youth (bassista dei Killing Joke e mago del brit pop), a cui si deve un suono asciutto, incisivo e privo di inutili orpelli. Un plus non da poco, esattamente come la copertina del disco, una delle più belle pubblicate quest’anno.