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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
07/12/2022
Le interviste di Loudd
Max Fuschetto: nel tempo, nello spazio, libero di consonanze e dissonanze
"Ritmico non Ritmico" parla di geometrie. Un incontro-scontro con la vita umana che è pura sintesi dell’istinto, realizzato con musicisti notevoli i quali tessono partiture a celebrare tutto questo. Dissonanze, consonanze e sospensioni. "Ritmico non Ritmico" è visione di una quiete instabile, realizzata con una scrittura capace di semplicità, sintesi ed essenzialità.

“Direi che il tempo che preferisco è statico e contemplativo, non importa da quante altre cose sia interrotto nel frattempo”

(M. Fuschetto)

 

Una premessa su tutte: il rispetto di questo mestiere me la impone. Non ho una cultura capace di padroneggiare tutta la musica che gira, la sua grammatica, la storia foriera di colte citazioni. Dischi come questo, ad esempio, richiedono, pretendono e abbisognano di anime alte nella cultura, ed io che non ho mai trovato la chiave per capire anche solo un contrappunto, non ho dunque palato educato a ricamar parole e critiche importanti attorno a volute armoniche e incastri sonori finemente intagliati.

Ora che ci penso, il lungo viaggio con il suono e il pensiero di Max Fuschetto, per me nasce nel 2015, con il mondo apolide di lingue e di distopie sonore che mi regala un disco come Sùn Ná. Da lì in avanti ho viaggiato nel tempo, ho scoperto il santo dono dell’equilibrio precario e, nella mia umile ignoranza di grammatiche e di contenuti, ho abbandonato sempre ogni riferimento, timido e cinguettato per sentito dire, lasciando soltanto al cuore e alla pelle l’unica voce utile per l’orientamento. La premessa lunga era doverosa. Ora premiamo play.

 

Ritmico non Ritmico parla di geometrie. La geometria non è soltanto questione di numeri e di matematica, non è neanche questione di calcoli e previsioni, di un mettersi alla prova con quelle regole ricorsive che la vita puntuale ci assegna. La geometria significa spesso anche abitudini e omologazioni che inevitabilmente giungono alla rottura, al momento della contraddizione, momento alto di questo disco che torna, geometricamente torna.

Lunghe distese, ampi spazi, nebulose di vento grigio e fumi che coprono lo sguardo. E l’uomo lo puoi incontrare, nudo, che sbircia dentro i ruderi di geometrici palazzi, resti urbani, matematici anch’essi, resti di un’apocalisse, di una liberazione. L’uomo torna alla sua essenza e abbandona le industrie, le matematiche, abbonda le geometrie, abbandona le sue verità… ritmiche.

 

Ritmico non Ritmico dunque lo leggo come un incontro-scontro con la vita umana che per me è pura sintesi dell’istinto: educato, compromesso, contaminato certamente, ma pur sempre istinto. Max Fuschetto sceglie musicisti e tesse partiture a celebrare tutto questo: ritmico scandisce, cellule sonore che poi diluisce; scompaiono le regole, i contorni, i limiti, tutto si distende, tutto sembra nebbia e poi diventa pace. Comprensione. Almeno sembra.

Dissonanze, consonanze, sospensioni; un tempo trova regole buone fin quando giunge la variazione inattesa che lo contraddice ed il suono, servo fedele e vettore automatizzato, mostra una forza e una completezza narrativa che arriva meravigliosa anche ad un orecchio ignorante come il mio. Avrei voluto fare mille domande all’amico e compositore campano. Ritmico non Ritmico è visione di una quiete instabile, è quella timida eccezione che alla regola deve tutto per elevarsi a ragione.

Non solo in questo disco: io penso che la scrittura di Fuschetto sia capace di semplicità. Che significa sintesi, essenziale, equilibrio primigenio con se stessi. Le regole, il costume, la società e tutto il resto sono soltanto un contorno esterno. Ecco il valore alto di saper stare nudi, senza maschere, senza nascondigli. Così raggiunge le mie ossa il nuovo disco di Max Fuschetto.

 

 

Prima di ogni cosa emerge il tempo come figura retorica e allegoria. Del tempo sembri prenderti gioco ma con delicatezza, sembra non esserci un legame matematico e stilistico; forse più narrativo, anzi, decisamente narrativo. Dunque la domanda che torna sempre nelle mie interviste qui trova una dimensione più umana, personale, quasi evocativa: che rapporto hai con il tempo?

Credo che qui sia il tempo del comporre che ci interessa, e anche quello dell'ascolto. In realtà si crea (compone) anche per posizionarsi in un altro tempo. E, per quanto riguarda chi scrive, si lavora per consegnare a chi ascolta un tempo che è legato a quell'oggetto e a nessun altro. Un tempo in cui l'emozione, il ricordo, la percezione dell'esperienza sonora così com'è ne allarga i confini. Il tempo, elemento primario nella musica, che dà la possibilità di dar forma a qualcosa, diviene esso stesso qualcos'altro rispetto al tempo vissuto in una qualsiasi altra attività quotidiana. Direi che il tempo che preferisco è statico e contemplativo, non importa da quante altre cose sia interrotto nel frattempo. Un tempo in cui l'evoluzione di un'idea prende forma lentamente. In questo processo sento accadere intensamente la vita.

 

Altra parola importante: ritmo. Al di là del titolo, che indagheremo a breve, il ritmo ci riporta ad una dimensione stilistica, matematica, della struttura come della narrazione. Esci da queste regole numeriche per necessità o per sfida, per rivoluzione o quasi per provocazione?

Come molti musicisti per ritmo non intendo solo ciò che ha a che fare con la pulsazione ma anche, e forse di più, col movimento: il ritmo delle forme in evoluzione. Come cioè, attraverso la ripetizione e la variazione di un breve motivo, lo slittamento delle voci, la giustapposizione improvvisa di uno o più elementi che facciano saltare la continuità e infine anche l'illusoria possibilità di gestire il caso, si arrivi ad un punto non previsto nelle premesse. Mi viene in mente una sorta di poetica della deriva. "Prima di conoscerlo, l'ignoto infiamma i nostri cuori" (J. Cage).

 

Quando invece ne resti “intrappolato” (passami il termine brusco), ci convivi bene? Senti di aver spazio nel dire tutto quel che bisogna?

Se uno avesse la possibilità di guardare anche le partiture di brani come “Number 3” o “Number 5” o anche “Trame”, brani in cui prevale il suono ribattuto e quindi anche il pulsare, avrebbe la rappresentazione chiara di una musica non incasellata nella griglia delle battute ma libera di fluire al di là di esse. La classica separazione della musica in battute, ovvero unità ordinate di tempo (3/4, 4/4 ecc.), serve qui solo da orientamento all'esecutore ma la ripartizione è indifferente al discorso musicale che si realizza in un continuum temporale i cui unici riferimenti certi sono un inizio e una fine.

 

E giungiamo dunque al non ritmico: perché la rottura? Dal lato compositivo cosa vuole rappresentare?

Il titolo Ritmico Non Ritmico oltre a rappresentare una sintesi della poetica del lavoro è anche una provocazione. Facendo spesso riferimento nelle interviste o nella presentazione dei miei lavori alla musica africana Subsahariana, più di un ascoltatore si meraviglia di non trovare quella evidenza ritmica che caratterizza questa musica. In effetti non c'è perché ne sarebbe una copia. Ciò che invece è ben presente sono alcuni concetti fondamentali che pur rendendone unico e inimitabile lo stile, sono trasferibili con un po' di immaginazione: la poliritmia, l'uso di pochi suoni, l'indifferenza tra suono e rumore, ovvero tutto è suono, l'assenza di armonia così come è stata pensata e sviluppata nell'Occidente classico, il modo originale di usare le ripetizioni e le variazioni di brevi motivi. Per cui anche quando sembra che in una trama che vado elaborando non ci sia una pulsazione evidente, o anche se è presente non è facile seguirla, in realtà quella rete di motivi che si intrecciano nel brano obbedisce a una idea di incastri e connessioni che sviluppano un ritmo evolutivo, e quindi una forma musicale, che è quella e non un’altra. 

 

Io che amo i risvolti sociali nell’arte e nell’ingegno mi chiedo anche: non ritmico è anche un modo per fotografare questo tempo decisamente fuori dalle norme e dalle consuete abitudini?

Bauman e Barnum mi verrebbe da rispondere. Non vedo grandi spazi di libertà: l'uomo è sempre ostaggio delle proprie paure, della propria ignoranza, di un desiderio di possesso vacuo. Ci sono le eccezioni ma in un pianeta sovraffollato, affamato e rumoroso fanno poco testo.

 

Altra parola che torna nel mio sentire è visioni: un disco che mi regala visioni ovunque e che a suo modo le altera dopo avermele mostrate. Di fronte ho della sospensione, come fossero giornate di cemento urbano in silenzio, in attesa; poi la ricerca di un equilibrio per ritrovarsi in paesaggi che non avrei saputo prevedere. Che visioni nasconde il disco dal tuo punto di vista?

Non posso dare una risposta certa, anche per me i paesaggi sonori sono mutevoli, lo sono anche i miei, e riguardo all'interpretazione obbediscono alle leggi della sensazione e del caso. So solo che è importante partire da immagini che vengono da altri universi come la pittura, la scrittura e la vita stessa, per forzare quei cliché, quella retorica discorsiva, che ogni forma artistica, musica compresa, tende a sviluppare con l'intento, conscio o meno, di creare riferimenti certi nel pubblico e quindi determinare il successo di un'operazione. Non condanno qui il successo, anzi. Semplicemente la comodità di certe soluzioni deve fare i conti con l'irrequietezza di taluni spiriti.

 

Cadiamo dunque sull’immagine di copertina: geometrica, ritmica, che in qualche modo significa anche ciclica, ricorsiva, anche modulare se vuoi. Un equilibrio geometrico che custodisce però l’uomo nel vivere quotidiano, tassello che rompe le previsioni numeriche. Però è un uomo riflesso, vedibile soltanto dagli specchi dei palazzi. Io qui penso anche all’uomo quadrato dai palazzi del potere, dalla società costruttrice…

La splendida immagine è di Katarina Malkovic Vukasin, una straordinaria fotografa serba. Il contrasto tra la geometria degli elementi architettonici dell'edificio e il movimento della vita giù in strada, liquida e disordinata, riflesso negli specchi a parete alle cui spalle si distende l'azzurro elettronico del cielo, sintetizzano perfettamente la poetica espressa in “Ritmico”.

 

Dissonanze. Spesso il disco colora la scrittura di dissonanze. Io le chiamo così quando accordi e finiture di arrangiamenti “stonano” e deviano dal percorso propriamente atteso. Piccoli frammenti che conducono l’ascolto lontano dalle strade del “pop” romanticamente inteso. Anche qui non so se ho ben reso il concetto, cosa ti viene da dire in tal senso?

Consonanza e dissonanza. Mi vengono in mente alcune parole di John Cage quando dice che "se esiste un'esperienza che, più di ogni altra, porta ad avere una mente aperta, questa è l'esperienza di essere disturbati da un altro, di essere interrotti da un altro". E aggiunge: "Stiamo studiando l'essere interrotti”. Consonanza e dissonanza sono reciprocamente l'altro: l'interferenza, il disturbo, la ricchezza.

 

Devo dire che l’ascolto, per riprendere cose già dette, sembra sospendersi in una sensazione apocalittica. Qui torna il rimando al tempo che viviamo, alla pandemia, alla guerra che non era ancora scoppiata al tempo del disco, ma comunque tutto sembra convogliare dentro questa visione. In questo disco ti sei fatto decisamente più riflessivo e contemplativo di qualcosa che forse, sempre stando a ciò che mi comunichi, devi codificarlo tu stesso. Il disco non mi dà risposte, piuttosto visioni che cerchi di codificare, è come se mi stessi chiedendo un aiuto, quanto sono fuori pista?

L'arte non offre nessuna risposta, quando è ben fatta offre un mondo migliore.

 

Chiudiamo. E chiudo pensando al suono. Come hai scelto le voci narranti di questo disco? Non parlo tanto di esecutori, alcuni dei quali tornano a circondarti, ma ti chiedo proprio della timbrica e dunque della loro capacità di raccontare la visione che avevi di dentro. L’elettronica poi, appare ma non incide e non distrae, non è protagonista, ma comunque c’è. Che rapporto hai con tutto questo?

Mi avvio ringraziando innanzitutto gli straordinari musicisti impegnati: Enzo Oliva al piano, Pasquale Capobianco alla chitarra elettrica, Eleonora Amato al violino, Silvano Fusco al cello, Luca Martingano al corno francese, Giulio Costanzo alla marimba, Antonella Pelilli alla voce e lo Special Guest Luca Aquino al flicorno. Affidare un’idea ad un musicista non è una questione di poco conto soprattutto quando per uno stile in evoluzione non esiste ancora una codifica precisa. Come in tutte le cose la cooperazione, a certe condizioni (talento, esperienza ecc.), porta senza dubbio a risultati più alti: un’alchimia il cui effetto finale va al di là della somma delle parti. Anche l'elettronica è inserita con l'intento di trasformare e spesso di deformare il significato degli eventi sonori. Come per i concetti di dissonanza e consonanza, l'elettronica a volte è interferente, altre accogliente fornendo uno sfondo per l'azione, altre ancora diventa la pasta con qui è manipolato il suono, un po' come la gravità per lo spazio-tempo.