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REVIEWSLE RECENSIONI
30/11/2018
The Good, The Bad And The Queen
Merrie Land
“If you’re leaving please still say goodbye”. Così si apre “Merrie Land”, la prima canzone dell’omonimo album dei The Good, the Bad and the Queen. Un ultimo e triste addio ad una donna molto particolare.

Che questa sia l’Inghilterra – e non un’Inghilterra qualunque, ma quella sconvolta dagli esiti della Brexit – non può essere negato, dati i numerosi rimandi culturali e sociali al Regno Unito e sapendo che Damon Albarn (ex-leader dei Blur) è uno degli artisti più impegnati politicamente.

L’esigenza di dare voce all’attuale realtà debole e confusa della Merry England ha spinto la band stellare, composta da Paul Simonon (The Clash), Simon Tong (The Verve), Tony Allen (Fela Kuti e non solo), Damon Albarn a rompere ben undici anni di silenzio.

Tuttavia, come Albarn stesso ha affermato, “Merrie Land” non vuole essere né un giudizio di valore riguardo al referendum né esaltazione del paese. Simonon, inoltre, ha sottolineato come il disco sia in realtà "a sentimental world about how people imagined England used to be and it was never”. E in questo mondo, i punti di vista esposti sono molteplici e spesso contrastanti tra di loro, com’è tipico di una società complessa e multiculturale.

Pur partendo da un contesto molto ristretto, la band è riuscita a creare delle atmosfere valide per ascoltatori in ogni angolo del mondo. E questo è sicuramente merito di una produzione eccezionale, ovvero, quella di Tony Visconti che ha collaborato con gli artisti più disparati: da David Bowie ad Alicia Keys, da Peter Gabriel a Morrissey. Inoltre, fra i quattro musicisti si nasconde anche un forestiero: il nigeriano Tony Allen che, arrivando dal world music e dal jazz, ha dato un tocco in più ad una formazione dal gusto marcatamente inglese.

Dunque, il disco ha un livello di lettura più generale che sfocia in una consapevolezza nuova che oggi pervade l’intero mondo occidentale: che le politiche sociali stiano bruscamente virando a destra, costruendo nuovi muri da abbattere. La copertina stessa dell’album si rifà ad un film horror degli anni ’40, “Dead of Night” di Michael Redgrave, in cui un ventriloquista viene perseguitato dal proprio pupazzo. Insomma, la storia di un mostro che prende vita da qualcosa di innocuo. È sotto il nome di progresso che si nasconde un futuro disastroso: “Is a case for love / When everything else / That keeps us together conspiring to tear us apart” (“Gun to the Head”).

Oltre alla disillusione, si aggiungono una nostalgia per un passato mai esistito, una forte crisi d’identità legata a valori anch’essi inesistenti e tanta tristezza. E il sentimento che meglio unisce tutti questi aspetti è proprio la disillusione amorosa. Albarn canta alla “sua” Uk come ad una donna che lo sta abbandonando. “And where does she go now? / And where does it seem to be free? / And where does she go now? / And where will she carry me?” (“Lady Boston”).

La fine di un amore a cui il cantante inglese ha dato forma adottando nuovi escamotages che lo allontanano notevolmente dai Blur degli anni ’90: soluzioni melodiche e metriche poco scontate che trasmettono un senso di insicurezza, accompagnate dalla sua voce ben invecchiata.

L’esperienza musicale del cantante inglese è sicuramente predominante: “Poison Tree” ricorda l’ultimo lavoro con i Blur (The Magic Whip, 2015) e “Ribbons” è quasi una variazione di “Hostiles” dal suo lavoro solista “Everyday Robots” (2012).

I pezzi in cui, invece, emerge meglio l’identità del gruppo sono “The Great Fire” e “The Truce of Twilight”. Qui la psichedelia dell’album precedente rivive con trasporto e si distinguono bene il basso impeccabile di Tong, la chitarra di Simonon e il ritmo incalzante e giocoso di Allen.

Ciò che conferisce unità al tutto, è la vena circense espressa dalle tastiere di Albarn, carillons, scampanellii e l’utilizzo dello ‘spoken word’ teatrale (“The Last Man to Leave”).

Uno spettacolo inquietante e scadente alla fine del quale cala inaspettatamente una nota di speranza: “I'll see you in the next life / I'll set you free/ To find your promised land” (“Poison Tree”).