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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
22/07/2022
Live Report
Michael Kiwanuka, 15/07/2022, Anfiteatro delle Cascine, Firenze
Quello che sto per raccontarvi è uno dei concerti più belli a cui abbia mai assistito. Sia ben chiaro, non mi ha sorpreso. Me lo aspettavo infatti esattamente così.

Michael Kiwanuka è un cantante e chitarrista britannico classe 1987 di origini ugandesi. Attivo sin da giovanissimo come turnista chitarrista, comincia a farsi strada col proprio repertorio nel 2011 seminando negli anni e realizzando ad oggi tre importanti album: Home again (2012), Love & Hate (2016) ed il capolavoro ed omonimo Kiwanuka (2019), album con cui l’ho conosciuto.

Tre dischi in crescente maturazione, sonora e produttiva da un lato, ma soprattutto compositiva e di arrangiamento dall’altro. Premetto che Danger Mouse ha messo lo zampino negli ultimi due, producendoli e rendendoli sacri. Sottolineo con la stessa importanza che ignoravo totalmente del coinvolgimento di quest’ultimo (mio autentico guru produttivo) fino a pochi minuti fa, cosa che mi ha reso ancor più esente da pregiudizi.
Siamo di fronte ad uno scrittore di musica soul e R&B, lentamente scivolato, la cui importanza – soprattutto con l’ultimo album – ha portato a far sì che il genere che propone sia stato catalogato come New Soul. Come a dire: “Ehi, si sta inventando roba nuova, difficilmente catalogabile, quindi diamogli quest’etichetta enorme”. Ed è tutto vero.

Quindi lo aspettavo. L’Anfiteatro delle Cascine di Firenze è risultato essere un posto ideale per l’atmosfera, l’ambiente stretto in uno spropositato verde, e un clima benevolo verso le gradinate stracolme e sold out.
Il pubblico è stata la seconda cosa che ho apprezzato, dopo la giustezza della location. Mi sono sentito a casa anche semplicemente girovagando prima dell’ingresso, un senso di benessere e di tiepidità che mi ha fatto capire che loro, esattamente come me, abbiano capito la grandezza di Michael e che siamo tutti lì per godercela. Nessuno attratto da un singolo esageratamente esploso, nessuno fuori posto. Home again, per tutti.

 

Avevo accuratamente evitato di spoilerarmi qualsiasi esibizione live, ma volevo godermi la prima volta, la cascata di sensazioni. Conosco molto bene l’ultimo Kiwanuka, che possiedo fisicamente ed ho ascoltato Love & Hate fino a capirne anche di questo la grandezza. Il primo Home Again invece mi ha reso un po’ più sospettoso: belle cose, ma un po’ più abbozzate, i semi di una grandezza che forse aveva bisogno della mano esterna giusta per essere indirizzata e sbocciare. Sicuramente più classico e soul in una maniera pulita e rispettosa.

Ora, vi sembrerà che stia parlando di discografia e non del concerto, ma vi assicuro che non è così; questo ho trovato e questo è il preludio necessario per condurvi dentro alle frequenze del live.

 

La formazione è la seguente: batteria, basso e tastiere/campionamenti nelle retrovie, mentre in prima fila spiccano ai lati le due coriste e la chitarra. Nel mezzo lui, voce, chitarra e tastiera laterale.
Il concerto è stato una cascata di emozioni: sonore e visuali.

L’inizio, affidato a “Piano Joint (This Kind of love)” ha subito messo a fuoco nella mia testa quelli che saranno i punti focali dell’intera esibizione, canzoni, bravura e suoni a parte: la dinamica e la gestione libera del tempo.
È stato infatti il suono della gran cassa, con i suoi iniziali accenti dritti e suonati dinamicamente sempre più piano ad attrarmi ed infilarmi in quel mondo, il suono di una grancassa ad un concerto dotato di un impianto stracolmo di watt, dove la cassa stessa gioca a suonare sempre più piano, fino a far sentire la pelle da vicino, fino a fartela vedere. Tutto questo mentre il tempo lievemente oscilla e la cosa mi conquista, mi fa intuire che magari non ci saranno sequenze, o se ci saranno non la faranno da padrona; saranno le mani dei musicisti a spostarmi e prendermi. Non che abbia niente contro le sequenze, ma è semplicemente la sensazione di essere nelle mani giuste, la base del funk, del groove, del soul e del coinvolgimento emotivo.

 

Detto questo, vi giuro che posso tagliare corto e andare dritto al punto per santificare il resto. La scaletta ha reso omaggio ha tutto l’ultimo disco, escluse un paio di tracce più scomposte e sperimentali “Another Human Being” e “Interlude (Loving the people)”, che sono state lasciate fuori. Da Love & Hate sono state prese le sei immancabili per un live come questo dove regna il sound e la produzione dell’ultimo album; quindi “Cold Little Heart”, “Rule the World”, “Black Man in a White World”  col suo clapping che ti si stampa in mente e diventa un momento topico del concerto, “Falling, Love & Hate”  a chiudere il set e a chiamare il pubblico fino a spargersi e a mischiarsi in maniera fisica e non solo spirituale; la bluesy “One More night”, terza canzone del set, messa nel mezzo ad un quintetto di canzoni dell’ultimo omonimo. Infine la sola “Home Again” del primo disco.

 

La voce di Kiwanuka è un autentico regalo perché in quel suo colore respiri Otis Redding e tutti coloro che ci si sono affiancati nei decenni; penso a Bob Marley, Corey Glover dei Living Colour, Ben Harper. È un timbro puro il suo, che ti incanta e ti tiene stretta l’attenzione finché non molla quella nota, e quel briciolo di fatica un po’ la fai tua perché ti fa mancare il fiato, eccolo il soul.

Chitarristicamente ottimo ed ineccepibile, come chi scrive cose particolari con stile armonico e ritmico tutto suo, andando da suoni puliti fino al midollo ad altri affogati nel flanger. Alla sua sinistra la chitarra dura e ritmica, marziale e tagliente, quanto protagonista nei momenti solistici (e sicuramente il finale di Love & Hate è il suo top). Ma ciò che preferisco è l’aspetto acido e fuzz di questa chitarra che doppia i temi delle due donne dall’altro lato e fa respirare il colore forse più “nostro” in assoluto; perché quando unisci una chitarra fuzz a due coriste e metti tutto all’unisono non puoi che avere un effetto e si chiama Commedia italiana anni settanta. Quindi Morricone, Plenizio, Piccioni, che spuntano e dominano in queste canzoni ed è un piacere. Le due coriste sono due autentiche spade, sempre a voce piena, sempre perfette, che si doppino o si intreccino o che aiutino la ritmica con le loro percussioni (tambourine, congas, caxixi e altri suoni fondamentali all’insieme sonoro e ritmico).

Basso e batteria sono un’unica cosa, come il genere chiede, anche se ho provato un amore profondo per il secondo, vista la perfezione con cui ha guidato l’intero concerto, di dinamica, spirito e bpm. Il basso è stato giusto, fin troppo gonfiato fuori, ma utile a stordire quella parte del nostro cervello.

Infine il lato armonico e pianistico, quindi piani, rhodes, organi, synth e campionamenti, rari ma presenti. Il suono frammentato che ha il compito, pur nelle sue forme variegate, di chiudere il cerchio.

 

Ho pensato spesso ad Amy, lo ammetto. Ho pensato a questo dualismo tra il black & white, l’amore e l’odio per l’appunto, l’uomo e la donna che usano il passato ed esprimono se stessi inventando qualcosa di nuovo, poggiando magari più sui Sessanta lei e sui Settanta lui, questo magari lo dico. Ma l’ho pensata spesso e ho ricordato nitidamente quella sorpresa che ebbi quando sentii esterrefatto Back to Black per la prima volta; ecco questo live mi ha chiarito che ascoltare Kiwanuka quella prima volta mi abbia dato quella stessa sensazione ma che forse ancora non l’avevo fermata.

Sottolineo con certezza il mio momento top di tutta l’esibizione, che ha coinciso con “Hard to Say Goodbye” e con quel suo solenne tre quarti che mi ha inchiodato. Divini.

 

Una formazione perfettamente schierata e meravigliosamente architettata. Ma saper rendere merito ad un egregio arrangiamento non sarebbe niente se alla fine non ci fosse l’ultimo vero caposaldo: la scrittura.
Che fossero scritte in maniera meravigliosa non era di certo una sorpresa per nessuno; ma sentire il proprio stimolo della bellezza continuamente solleticato dalle canzoni che semplicemente scorrevano e si alternavano ha reso il concerto un film bellissimo, un documentario montato splendidamente e con un sonoro a rendergli giustizia. L’armonia non è mai banale, è sempre ricercata senza per questo risultare ingarbugliata in compartecipazione con qualche soluzione ritmica che rende il flusso scorrevole e interessante. Viceversa, quando l’armonia è semplice ed orecchiabile, tocca all’arrangiamento ed al suono tenere alta l’asticella. È un equilibrio perfetto, non ho mai sentito la stanchezza, lo ammetto e ho sempre tenuto l’emozione incollata su quel palco. Questo lo ha reso un concerto memorabile, la conferma che è vitale scoprire quanto la bellezza ossigeni questo pianeta e il nostro stare insieme. E vi giuro che non è dolcezza la mia, ma una timida maniera di spiegarvi una cosa che da intima e primordiale mi è uscita fuori e l’ho vista tradotta in una platea estasiata.

 

 

Setlist:

Piano Joint (This Kind of Love) (Intro)

Piano Joint (This Kind of Love)

One More Night

You Ain't the Problem

Rolling

I've Been Dazed

Black Man in a White World

Rule the World

Hero (intro)

Hero

Hard to Say Goodbye

Light

Final Days

Solid Ground

 

Encore:

Falling

Living in Denial

Home Again

Cold Little Heart

Love & Hate