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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
21/11/2022
Van Morrison
Moondance
Rock e r'n'b sono solo la superficie di Moondance, un album meraviglioso in cui affiorano tutte le influenze musicali presenti in Van Morrison, e così ecco a mano a mano comparire jazz, soul e irish folk in brani che narrano di rinnovamento spirituale e redenzione. Canzoni composte e interpretate in un modo unico e speciale, come solo il burbero e pirotecnico Van the Man sa fare. Eravamo nel 1970 e questo era il suo terzo disco.

“The Last Waltz ha avuto alcuni eroi incontrastati. Van Morrison era uno di loro. La gente sa che io e Van siamo vecchi amici e Bono una volta mi ha detto: ‘Sì, probabilmente sei il suo unico amico.’ (Ride). A volte è un po' brontolone, ma è fantastico. Lo amo come persona, lo adoro come autore di canzoni ed è semplicemente il miglior cantante. Lo avevo visto dal vivo un sacco di volte, però mai comportarsi in quel modo. Alla fine di Caravan scalciava le gambe come una rockettara!”

 

Le parole di Robbie Robertson, mente e chitarra di The Band, nonché inventore del nomignolo “Van the Man” proprio durante quella serata che “celebrava” l’ultima apparizione live del suo epico gruppo, sintetizzano alla perfezione il genio e l’eccentricità di uno dei più grandi artisti del nostro tempo, Van Morrison. Brillante e scontroso, meraviglioso e paranoico, certamente unico. E unico rimane l’impatto sulla musica moderna di Moondance, terzo album sfornato dal virtuoso di Belfast, dopo lo scoppiettante Astral Weeks di due anni prima. Adorato da migliaia di musicisti fin dalla sua prima composizione coi Them, la mitica Gloria, Morrison ha lasciato una traccia indelebile in superstar come Bruce Springsteen e Patti Smith, ha infervorato gli animi rock di personaggi come Bob Seger e ispirato autori come David Gray, però l’elenco è interminabile, come quello delle collaborazioni, dai Chieftains a John Lee Hooker, attraversando e saldando generi differenti, senza dimenticare l’amato blues, appunto, ascoltato con passione e attenzione fin dall’infanzia.

Il genio irlandese comincia la stesura delle canzoni di Moondance nel 1969, dopo essersi trasferito da New York in una casa in cima a una montagna nelle Catskills, vicino a Woodstock. Il successo dei Them e la registrazione dei primi due lavori solisti (apprezzati dalla critica, però insoddisfacenti a livello di vendite), lo avevano già condotto negli Stati Uniti e ivi rimane, folgorato dalle composizioni visionarie di Bob Dylan e Miles Davis, due personaggi musicalmente agli antipodi, ma con una concezione intellettuale simile, quella di dar sfogo al proprio ego e contaminare l’arte con più sfaccettature possibili.

Morrison torna nella Grande Mela insieme ad alcuni sessionmen conosciuti nei dintorni di Woodstock e invece abbandona, durante le varie incisioni, gli altri arruolati dalla casa discografica già presenti in Astral Weeks. Ha le idee chiare, si prefigge pure di produrre l’album che ha in mente, per non ricevere interferenze esterne e approcciarsi con una nuova estetica nella stesura del materiale; vuole che siano solo i musicisti ad assecondare la sua visione creativa e a causa di tal situazione vi sono infatti attriti tra lui e una parte di loro, ma alla fine ottiene il risultato cercato, con sacrificio e profonde intuizioni. Il chitarrista John Platania, il sassofonista (Alto e Soprano) Jack Schrorer e il tastierista Jeff Labes, davvero fenomenali per il contributo offerto in Moondance, rimarranno con lui per diversi anni, segnando permanentemente le sonorità di questo e dei dischi a venire, senza mai splafonare nella banalità e nei cliché stilistici, come da progetto e ideali di Van, assoluto protagonista per tutte le canzoni. Con una vena compositiva in stato di grazia il funambolo irlandese non si ferma all’interpretazione vocale, bensì si diletta all’armonica, al tamburino e alla chitarra ritmica per dare il proprio tocco anche con gli strumenti.

 

Il Lato A dell’LP rasenta la perfezione, con cinque motivi indimenticabili che non hanno subito minimamente le angherie del tempo e suonano ancora oggi, come allora, veementi e non convenzionali. Si comincia con la rappresentazione in musica di un’immagine mistica e all’aggettivo mistico bisognerebbe ricorrere spesso per descrivere quest’opera: stiamo parlando della bucolica "And It Stoned Me", in cui tramite metafore ben congegnate viene narrata un‘esperienza vissuta dall’autore a dodici anni, quasi al termine della strada della fanciullezza e a un passo dalla perdita dell’innocenza. Nell’incredibile "Moondance" invece il protagonista vive una storia d’amore adulta, ambientata in autunno, “Bene, è una meravigliosa notte per ballare al chiaro di luna con le stelle lassù nei tuoi occhi, una fantastica notte per avere un’avventura sotto il cielo d’ottobre, e tutte le foglie sugli alberi cadono al suono del vento che soffia…”. Si potrebbe definire poesia mondana, mentre la musica è un ben calibrato incrocio tra r&b, rock e jazz.  L’arrangiamento è formidabile, l’atmosfera è “swingante” e punta prevalentemente sull’acustico, con pianoforte, chitarra, sassofono, basso elettrico (magistrale la prestazione di John Klingberg) e un flauto ipnotico e ammaliante che sostengono il cantato di Van.

"Crazy Love" è una dichiarazione d’amore puro alla moglie di allora Janet Planet, un tentativo di universalizzare l’affetto e la gioia di stare insieme. Ricorda molto nella parte vocale l’approccio di Richard Manuel e anche le melodie sono in stile The Band, come la seguente "Caravan". E qui riecheggiano le affermazioni di Robertson: che cantante! Il pezzo rimane nell’enciclopedia della musica anche per la mirabile esecuzione di quell’incredibile sera alla Winterland Arena, in San Francisco, di cui parla Robbie, tuttavia trova nel contesto di questo album l’esatta collocazione per il suo essere un’ode del potere trascendente del rock ‘n’roll, una raffigurazione dell’estasi della vita gitana che celebra con entusiasmo lo spirito comunitario, giubilo per la condivisione dell’ascolto delle canzoni alla radio e felicità per la completa sottomissione all’amore, un amore romantico che non può aver fine: “Alza il volume della radio e fammi sentire il brano, accendi la luce, così potremo affrontare ciò che è veramente sbagliato. Desidero stringerti forte per poterti sentire. Dolce signora della notte, con te mi confiderò".

 

“È allo stesso tempo uno spirito libero e di una serietà mortale per quanto riguarda le tradizioni a cui attinge. Sembra raggiungere le sacre radici del gospel della musica soul, anche se lo fa con le sue mani irlandesi battute dalla pioggia. Come tale, a volte cerca Dio e lo trova nei luoghi in cui John Moriarty potrebbe dirci di guardare: quaggiù sulla terra verdeggiante, comune e sacra”. (Hozier)

 

L’ammirazione per Van the Man è profonda anche nei giovani artisti: Hozier è uno di loro, folgorato da "Caravan" e da quell’incrocio tra la meraviglia naturale della propria vita con l’armonia cosmica che è la dolce ballata folk "Into the Mystic", gonfia di immagini che certificano l’intricato equilibrio del vivere, sensibilizzando la ricerca dell’assoluto e l’accettazione della serena dipartita da questo mondo: “Sì, quando quella sirena della nebbia suonerà voglio sentirla, non devo temerla. E voglio cullare la tua anima gitana proprio come ai vecchi tempi. Poi magnificamente fluttueremo nel mistico. Quando la sirena della nebbia suonerà, sai che tornerò a casa.”

Di fronte a questa favolosa cinquina il tenue acquerello "Come Running" scivola via veloce con il suo contorno di felicità e apparente leggerezza; in realtà è geniale l’accostamento di immagini di natura inarrestabile come vento e pioggia, di situazioni non governabili come lo scorrere di un treno, all’effimero sogno di eternità d’amore fra il narratore e la sua amante. La criptica "These Dreams of You" tratta proprio di sogni o, per meglio dire di un incubo avuto, ove Ray Charles viene assassinato ed è occasione per immortalare in versi i momenti della separazione e dei rimpianti: “Avevo le spalle al muro e tu lentamente ti sei allontanata. In verità non hai mai ascoltato la mia richiesta quando ho gridato in quel modo, con la faccia contro il sole. Mi hai indicato di andare, poi hai detto che sarei stato quello che doveva raccogliere ciò che aveva seminato.”

"Brand New Day", perfetta mescolanza di country, soul e gospel, è sempre stato uno dei brani preferiti dai fan per quel senso di redenzione, di rinnovamento spirituale, di riscatto finalmente avvenuto e riconciliazione con la vita che esplodono fra le righe poetiche scritte da Morrison.

 

Quando tutte le nuvole scure si allontanano

e il sole inizia a splendere

Vedo la mia libertà dall'altra parte della strada

E arriva puntuale

Brilla così tanto e dà così tanta luce

E viene dal cielo

Mi fa sentire così libero e mi fa sentire me stesso

E illumina la mia vita con amore

E sembra come (sembra come) e si sente come (si sente come)

E sembra come (sembra come), sì si sente come (si sente come)

Un giorno nuovo di zecca (un giorno nuovo di zecca)

Un giorno nuovo di zecca, sì, sì (un giorno nuovo di zecca)

 

La nascita di un figlio, un nuovo amore che promette eternità, la felicità per aver scoperto un’amicizia profonda oppure un’insperata guarigione sono solo alcune vicissitudini reali e concrete che potrebbero collegarsi all’universalità delle parole dell’autore, che ha dipinto, per un attimo, in alcuni minuti di una “canzonetta”, la gioia di vivere. Ed è bellissimo pensare e sapere che lo stesso artista irlandese abbia dichiarato di aver composto "Brand New Day" dopo aver ascoltato (estasiato) alla radio "The Weight" di The Band: quanti incroci, a volte risulta impossibile pensare che tutto avvenga per fatalità, questo è il potere e la bellezza della Musica!

L’atmosfera spirituale e celebrativa non si placa in "Everyone", tenero bozzetto sprizzante speranza, che parte con un accattivante clavinet di "Labes"; poi subito entra in scena il flauto di Collin Tillton a riprendere il cantato di Morrison, mentre il sax soprano di Schrorer dona armonia al tutto. La finale e sarcastica "Glad Tidings" ha un ritmo imprevedibile, incalzante e permette all’istrionico musicista irlandese un velato sfogo sui mali dell’industria discografica e sul mondo delle celebrità.

 

Moondance risulta un disco completo, ispirato e rappresenta uno degli apici della lunga carriera di Van Morrison, un uomo che ha sempre diviso, per il modo di comportarsi e atteggiarsi sul palco e per le idee e pensieri fuori da esso, ma che dal punto di vista musicale difficilmente ha deluso. Lo testimoniano le sue quasi infinite uscite discografiche, da Tupelo Honey (1971) a Back On Top (1999), da Magic Time (2005) all’ultimo, recente, spiazzante What’s It Gonna Take. Irrefrenabile e controcorrente, prendere o lasciare, è così, Van the Man.