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REVIEWSLE RECENSIONI
02/11/2023
Arlo Parks
My Soft Machine
A due anni di distanza da "Collapsed in Sunbeams" Arlo Parks torna con "My Soft Machine" e qualcosa è cambiato. Una scrittura armonica e di ispirazione new soul che abbraccia una produzione anni Ottanta per riflettere sulla perdita di fiducia, sulle imperfezioni che ci mettono a nudo e sulla ricerca della felicità.

Aspettavo Arlo Parks. L’effetto che ha avuto su di me il precedente Collapsed in Sunbeams è stato del tutto imprevedibile, forse la migliore scoperta da cui sia stato toccato negli ultimi anni. Il beneficio l’ho ricevuto sotto diversi aspetti, sia dalla pura scrittura che emerge da melodie e parole, sia dall’arrangiamento apparentemente naturale e minimale, ma contornato da un castello di piccoli elementi colorati e indispensabili.

Mi era piaciuto l’aspetto naturale del sound in cui emergevano una batteria fatta di pochi elementi insieme ad un basso felpato, coprotagonista educato con le sue melodie, e pareva non esserci altro a sostegno della voce di Arlo Paks, con quel suo timbro tipico di chi non vuol fare altro che darti il benvenuto nel suo mondo semplice e puro. La differenza la faceva appunto ciò che non percepivi al primo ascolto: quell’accuratezza di arrangiamenti vocali e di elementi armonici vari che donavano il colore a quel castello, che poi ti restava stampato in mente come una sensazione irresistibile su cui poter soltanto tornare.

A due anni di distanza da quell’esordio, con My Soft Machine qualcosa è cambiato. Se non nella scrittura dei pezzi, che sono sempre armonici e d’ispirazione new soul, almeno nella produzione e nelle soluzioni sonore. C’è un’apertura a qualche sintetizzatore che sposta con forza la lancetta sugli anni Ottanta. Ecco, per dirla in poche parole, siamo passati da un’ispirazione che aveva trovato facilmente casa nei primissimi anni Settanta, ad un’altra che si infila, forse con un briciolo di sforzo, nel decennio successivo. Non ci resta che capire se ciò che ci siamo persi è più del nuovo che è arrivato.

 

“Bruiseless” è una magia. Forse il perfetto ingrediente per introdurci in questo nuovo mondo. Due accordi, tre suoni, un sottofondo polveroso, un loop di batteria e una voce irresistibile. Un minuto e undici.
«I wish I was bruiseless. Almost everyone that I love has been abused, and I am included». Non c’è niente da nascondere, piena apertura alle proprie ferite: «Vorrei essere senza lividi, chiunque abbia amato è stato abusato, e io sono inclusa». La chiusura vera di questa poesia spetta a un’espressione innocua, messa sulla tre quarti del brano: «I just wish I was seven and blameless». Vorrei solo avere sette anni e essere pura, impeccabile. È un album sulla perdita di fiducia, lo sento e lo capisco.

 

“Impurities” e le sue melodie armonizzate a quarte giuste donano un’ispirazione nipponica all’intro e gradualmente a tutto il brano. Un basso sintetico ci lancia nel pieno degli anni Ottanta, facendolo con stile, certo, ma con un effetto inevitabile. Il passo della canzone è la giusta via di mezzo tra il lento e il cadenzato, un prenderci per mano affidato ad una batteria che sembra un’ispirazione dei suoni del precedente, ma ipertrattata fino a sembrare finta. È ben suonata, o comunque ottimamente resa, ma forse la mancanza di ambiente sonoro toglie qualcosa al respiro del brano, nonostante il bel ritornello in cui Arlo abbraccia e stringe le sue "impurità".

"Devotion" si affida ad un basso dritto ed insolitamente ferroso, facendo respirare un’aria già sentita ma aggiornata verso qualcosa di nuovo. L’esplosione chitarristica decisa è un altro tratto insolito e nuovo che fa pensare a St. Vincent e alle sue distorsioni senza fronzoli.  La canzone finisce in un attimo. Finalmente arriva "Blades": ispirazione synth pop, tra ritmica sintetica e arrangiamenti che non lasciano spazio a dubbi. Ciò che fa la differenza è la prepotenza di comunicativa di Arlo che fa di noi ciò che vuole. Lo fa se parla, o lo fa se canta con un ritornello che ti inchioda.

 

"Purple Phase", aldilà del gioco di parole con cui chiama in causa Hendrix, è quella che istantaneamente ci riporta nel mood di Collapsed. Corde, fusti e piatti a fare il basso-batteria, forse coadiuvati da un rullante fake, e l’insieme è sublime, un arpeggio di chitarra che ci fionda nel suo reverbero lungo. Il suono di chitarra che ci sommerge a metà canzone è tra le cose più belle del disco, il suono in generale è uno sposalizio perfetto di tutti gli elementi chiamati in causa, forse nella canzone più debole dell’album. O forse è di quelle che ti entrerà sotto pelle a tua insaputa dopo un mese, non posso saperlo.

"Weightless" comincia e non si può non notare l’eccesso comunicativo del privativo –less, già almeno il terzo da inizio disco. Senza lividi, senza pecche, senza peso. È un’identità che si plasma spogliandosi delle impurità. E mentre la canzone scorre, col suo vestito soft elettronico tenuto in piedi da una compressione di fondo leggermente estrema per il suono, ne vengo ammaliato. C’è qualcosa di convincente, che mi stringe anche nelle cose che apparentemente sento distanti. Mi fido. D’altronde siamo in un disco sulla fiducia, no?

 

"Pegasus" è delicatissima nei suoni, negli accordi, nei timbri, stavolta aperti alla partecipazione della cantautrice Phoebe Bridgers. I suoni sono puntini nel cielo, a corredo di un’ispirazione alta. Ammetto di non capire la scelta di tutti questi piccoli suoni elettronici. O meglio, non ne capisco il beneficio, visto che sono continuamente distratto come dalla presenza di un corpo estraneo.

"Dog Rose" è un pop delicato che scorre via come una folata di vento, lasciandomi ai piedi della mente un piccolo rimasuglio, come di un ricordo, un dejavù che poi decifro e riconosco in “Just War” di Danger Mouse, Sparklehorse e Gruff Rhys. Questo è ciò che resta della ventata e se ne rivà via.

"Puppy" è pura ispirazione, sormontata dal suono. Un alto livello compositivo ed interpretativo, che mi pare appena soffocare un’interpretazione meravigliosa. Me ne farò una ragione?

"I’m sorry" sembra avermi letto nel pensiero e da subito si veste di un abito sulla cui mancanza sto continuamente sorvolando, facendomene assaporare un boccone folgorante. Curiosamente la canzone si muove sugli stessi passi armonici della precedente e sembrano prendersi davvero per mano. Nella stessa maniera capisco anche il limite di fare un disco basato sugli stessi mezzi comunicativi del precedente, è chiaro, e comincio a capire che c’è un motivo radicato e sensato in questo cambio.

 

La penultima traccia del disco è "Room (red wings)", una ballad sublime che ci tiene tesi in attesa della parola succesiva. «Pull up when you want me – I would». C’è un tocco di speranza, in realtà del tutto apparente perché viene dopo «Without you, I’m devastated». Ed ecco che la punta di speranza prende le sembianze di una richiesta di aiuto, un’ultima dichiarata prostrazione di cui spogliarsi.

"Ghost" è la canzone più bella del disco. L’ascolto e dopo solo un minuto sento il bisogno di dirlo. C’è un’armonia che vince grazie a quel soffice piano elettrico, sempre sul punto di sembrare banale ma che ad ogni giro sorprende e riporta al punto di partenza. Un labirinto in cui la parola "You"  inebria; ne conto trentacinque. Finisce la canzone e rimango in attesa. Perché questa richiesta di aiuto verso il “Tu” è fin troppo chiara e non riesco a capire la direzione. Chi è il tu? Cosa fare? Non ho scelta, magari dice a me. Premo play, ricomincio il disco.

 

Ascolto dopo riascolto capisco quanto la fiducia non si ritrova, ma se ti lasci cercare ti ritrova lei. Quello che più è rimasto dell'ascolto di questo disco, che avevo pressoché dimenticato ma che invece era ancora lì, era la pronuncia di una parola: “Happy”.
È accaduto in "Bruiseless", la prima traccia, nascosto in quella frase: «She’s feeding me cheese and I’m happy». Se l’identità che emerge nel disco è quella di un’anima, un angelo, un fantasma, che si spoglia degli effetti del male altrui, fino a trovarsi nuda e bisognosa di risentirsi pura e protetta come una bambina, quell’“Happy” è incredibile quanto possa dimostrarsi una parola innocua ma rispondente ad uno stato d'animo complesso.
È lo sforzo di Arlo, tra lo speranzoso e il terapeutico, teso a pronunciare una parola bella fino allo sfinimento, fino a circondarsene e prenderne la forma. Ma Arlo Parks l’ha anche pronunciata in una maniera unica, come se l’effetto di quella piccola parola, apparentemente banale, avesse avuto l'obiettivo di durare per tutto il disco, fino a trovarsi avvolti nella solitudine dell’ultimo brano, che implacabilmente finisce ed evapora. Una cura, marginale, detta di nascosto in mezzo ad espressioni più forti e stordenti, ma incredibilmente, come nel più bello dei gialli, da sempre sotto gli occhi di tutti.