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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
25/11/2019
Gene Clark
No Other (Ristampa)
In un mondo più giusto Gene Clark sarebbe stato nell’Olimpo dei grandissimi del folk rock. Nella stessa stanza con Bob Dylan e Neil Young, secondo a nessuno, terzo a nessuno. Alla pari, fra divinità.

L’anima dolce, sognatrice e visionaria dei Byrds, padre, insieme a Gram Parsons, del country rock. Andò via presto dalla band cui aveva regalato pezzi memorabili, con la sua cifra stilistica di un cantato armonico e vigoroso e delicati intrecci di chitarra e armonica. Portò la freschezza della British Invasion nel bluegrass dei padri, inebriando di leggerezza ogni brano scritto o cantato. Intraprese la carriera solista unendosi poi col fido banjoman Doug Dillard, dando luogo a quella Fantastic Expedition Of Dillard and Clark pietra miliare del country rock. E poi completamente solo scavò nel suo fervore cantautorale partorendo quella gemma indiscussa di White Light.

No Other è il suo album solista immediatamente successivo a White Light. (In mezzo ci fu Roadmaster che lo vide collaborare di nuovo con i Byrds). Fu un flop commerciale. Non venne capito, apprezzato, amato. Fatico a comprendere come possa essere accaduta una cosa simile. Cerco di trovare delle spiegazioni. Siamo nel 1974, il mondo della musica è ormai tutto un pullulare di rock esploso in tutte le sue sfaccettature, l’hard rock la fa da padrone, c’è il prog, ci sono già i germi dell’imminente punk. Quale spazio per il folk rock se non nel cuore dei sognatori che non si arrendono alla fine delle tensioni ideali degli anni 60? E quando uno dei suoi più virtuosi rappresentanti, anche se a torto mai abbastanza riconosciuto tale, ha appena toccato l’apice e mandato tutti in orbita con un album perfetto cosa gli resta da fare? Migliorarsi è difficile, se non impossibile. Ma sperimentare, andare avanti, contaminarsi, sfidarsi, questo sì che è possibile, anzi doveroso.

Deve averla pensata così mentre componeva i brani di No Other. In questo album, country, rock e folk si sporcano di accenni di psichedelia e anche di funk. Si dà spazio a cori gospel e a tratti ci si avvicina a quel muro del suono che fu marchio di fabbrica di Phil Spector. Una produzione innovativa e interessante, quindi. Forse mancò una adeguata promozione. Forse il suo pubblico lo avrebbe voluto solo e per sempre country rock. E invece Gene, con la sfrontatezza camaleontica tipica ad esempio di un Dylan, cacciò questo album destabilizzante ed incredibilmente bello. Ristampato una manciata di giorni fa in una deluxe edition, forse avrà finalmente la meritata gloria.

Brano di apertura è Life’s Greatest Fool, un country rock che non si discosta molto dal Gene noto, anzi direi che è molto periodo Byrds. Rassicurante e godibilissimo. Anche Silver Raven sembra collocarsi nell’alveo del noto, ma ha già un respiro più ampio, un uso dell’organo più in linea con i tempi e una sezione ritmica quasi proto funk. La title track è forse la più destabilizzante, la più contaminata. Lontana dal folk rock, con decise concessioni ai cori gospel e al funk soprattutto. Molto moderna, molto 1974. Colpisce e convince. Perfetto esempio di versatilità, di coraggio e di evoluzione artistica. Strenght Of Strings come anche From A Silver Phial sono costruite su arrangiamenti curatissimi e potenti, forti di tutte le novità di cui sopra, da cui sgorgano melodie memorabili che ci riconducono al Gene più primordiale. Il suo modo di cantare, la sua impostazione vocale fiera, virile e dolce al contempo non conosce eguali. Some Misunderstanding è un incantevole loop di 8 minuti. Una ballad di una bellezza ineffabile, con un andamento che si ripete senza stancare un attimo. Piano e batteria si intrecciano e crescono insieme a voce e cori fino a gridare tutta la dolcezza di Gene che lascia spazio a pochi fraseggi di chitarra dal sapore psichedelico che ci turbano per poi riportarci indietro e così fino alla fine. La perla assoluta dell’album. Lo si ama troppo dopo averla ascoltata. True One è un country arioso che non sta negli steccati del genere ma si veste di un’atmosfera nuova e più pop. A chiudere l’album è Lady Of The North. Ballad visionaria, con arrangiamenti che la rendono simile a quel country dell’anima che fu proprio del dylaniano Nashville Skyline. Con l’innovazione di un basso molto importante che si concede qualche virtuosismo prima di ripassare il testimone al piano che la fa da padrone e cresce insieme alla sua splendida voce.

Ah, fine lady of the North, like silver on the ocean shore”, queste le ultime parole. Di nuovo il basso insieme al piano, tutto in crescendo. E infine coda strumentale per congedarci da questo grande, incompreso, capolavoro.


TAGS: classic rock | GeneClark | loudd | NoOther | recensione | ristampe | SaraFabrizi