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REVIEWSLE RECENSIONI
28/02/2022
Beach House
Once Twice Melody
Un disco frammentato, spezzato in quattro sezioni differenti, ma dove c’è dentro tutto quello che sono da sempre i Beach House, con tutto il loro immaginario sognante, drammatico, profondamente cinematografico.

Piaccia o meno, è evidente che del nuovo disco dei Beach House, l’ottavo della loro carriera, verrà innanzitutto (e forse anche soprattutto) messa a tema la mole elefantiaca. Vale lo stesso discorso che si faceva per l’ultima fatica dei Big Thief: in un momento storico in cui l’attenzione dell’ascoltatore risulta tremendamente labile e dove le logiche di Spotify (e recentemente anche di TikTok) sono arrivate ad imporre agli artisti lavori sempre più brevi o addirittura solo un periodico flusso di singoli, uscirsene con qualcosa che sfiora l’ora e mezza di durata potrebbe apparire una mossa suicida o comunque presuntuosa.

Questo Once Twice Melody non fa eccezione e anzi, appare anche strano definirlo “nuovo disco” dato che i suoi contenuti sono stati anticipati a partire da novembre, a blocchi di 4-5 canzoni per volta. Nel momento in cui scrivo, dunque, solo quattro brani, quelli conclusivi, sono ancora inediti; il resto è stato abbondantemente elaborato e masticato, tanto che io stesso sono stato fortemente in dubbio se scrivere o meno questa recensione: se è vero (e io ne sono fermamente convinto) che le recensioni oggigiorno non servano più a nulla, a maggior ragione risulterebbe inutile quella di un lavoro tecnicamente già uscito da mesi.

Quella che il duo di Baltimora ha realizzato in questo periodo di di inattività forzata (in questi giorni partiranno finalmente per il tour e sarà il primo in tre anni) è di fatto una lunga e febbrile maratona compositiva, con soprattutto il chitarrista Alex Scally coinvolto fin quasi all’esaurimento nervoso. Se lo sono prodotti da soli, prima volta nella loro storia (ancora più significativo poiché arrivavano da un’importante collaborazione con Sonic Boom) chiedendo poi una mano ad Alan Moulder per alcuni mix.

Non si sono posti limiti, hanno detto. Se normalmente hanno sempre badato, all’interno dello stesso disco, all’uniformità del suono, questa volta hanno dato spazio alle varie soluzioni, si sono fatti sedurre dal fascino della varietà stilistica e, in qualche misura, dalle sperimentazioni. Il risultato, va da sé, è il loro disco più sfaccettato di sempre e probabilmente, ma lo capiremo tra un po’, anche il loro migliore.

È stato un lavoro lungo e difficile, anche per resistere alla tentazione di chiudere subito, con quella manciata di canzoni completate per prime, giusto per vedere l’effetto che avrebbe fatto. Il grosso delle parti strumentali catturate a Los Angeles, con Victoria Legrand che registra le voci nella sua Baltimora, in compagnia del solo Alex a farle da produttore e da ingegnere del suono. Cinque mesi solo per quello, poi è venuto fuori il casino dei vinili, con la carenza dei materiali e i lunghissimi ritardi di fabbricazione, per cui hanno capito che se non si fossero dati una mossa non sarebbero mai usciti per il 2022 (e anche così, la versione fisica arriverà comunque un paio di mesi dopo la release in digitale).

È un disco enorme, a tratti anche ingombrante  ma, hanno detto loro, funziona proprio perché è così. Tusk dei Fleetwood Mac, il White Album, Songs in the Key of Life di Stevie Wonder, Out of the Blue degli Electric Light Orchestra; questi alcuni dei riferimenti tirati in ballo dagli autori durante una recente intervista a Pitchfork; un modo elegante per sostenere che qualunque editing avrebbe inficiato la bontà dell’insieme.

Un disco frammentato, spezzato in quattro sezioni differenti, ma che allo stesso tempo ha il fascino organico dei titoli sopracitati. C’è dentro tutto quello che sono da sempre i Beach House, con tutto il loro immaginario sognante, drammatico, profondamente cinematografico. Una band che è partita dal nulla ma lo ha fatto con un’impronta talmente decisa e magnetica da divenire nel giro di pochi dischi un fenomeno quasi mainstream (sicuramente lo sono all’interno di un contesto di cultura Indie, passatemi questa tremenda acrobazia espressiva), tra decine milioni di stream su Spotify, presenza stabile nelle soundratck di varie serie Tv, un brano come “Space Song” largamente usato nei video homemade degli utenti di TikTok.

Il loro marchio di fabbrica è rimasto inalterato, col lavoro chitarristico di Scally a sposarsi con le orchestrazioni e le tastiere della Legrand e la sua voce così particolare e magnetica a legare il tutto. In questo senso la prima parte del disco è quella più classica e priva di sorprese, con la title track, distesa ed elegante, che costituisce il loro tipico modello espressivo e la successiva “Superstar”, più veloce e giocata sulle chitarre, oltre che più catchy nelle melodie.

Andando avanti si capisce però come tutto sia più pieno, le orchestrazioni più avvolgenti, gli strati sonori più spessi, il flavour cinematico più intenso. È un disco dalla dimensione quasi metafisica, con ogni singola canzone a vivere di una sua propria grandeur, in un’impressione generale di magnificenza.

Tanta varietà, dicevamo, visibile sia nelle evoluzioni di certe code strumentali (“On and On”) sia in certi episodi smaccatamente Vintage (vedi “Masquerade”, scritta su una vecchia tastiera dei primi anni ’90) sia in ammiccamenti ad un Pop anni ’80 la cui dimensione solare era fino ad ora rimasta estranea alle composizioni dei due (“Hurts To Love” ha dei tastieroni veramente sfacciati, “New Romance” ricorda un po’ i Chromatics) e c’è spazio pure per una “The Bells” costruita attorno alla chitarra acustica in una sorta di strano surrogato Folk.

Un’opera per certi versi anche immediata (quasi tutti i brani sono anche dei potenziali singoli) ma che allo stesso tempo potrebbe aver spento per sempre la crisi creativa del gruppo. Loro, di contro, ci credono poco: dicono di aver discusso la cosa ma di essere convinti (per lo meno ne è convinto Alex Scally) che dopo questo avranno ancora tre dischi da realizzare: uno minimale, chitarra, voce e nulla più; un’altro totalmente Dance e un altro di sole cover, rilettura affettuosa di alcune delle canzoni che hanno amato di più (“La maggior parte delle quali non sono canzoni Pop”).

Staremo a vedere.