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REVIEWSLE RECENSIONI
02/04/2021
The Hold Steady
Open Door Policy
Un disco di rock spigoloso, urgente e inquietante, su cui Craig Finn declina toccanti liriche di vita vissuta

Con un piede tenuto saldamente in due staffe, diviso tra una carriera solista cadenzata da un album ogni due anni e la militanza nella casa madre Hold Steady, Craig Finn, nell’ultimo lustro, ha regalato ai propri fan parecchie ragioni per essere felici. Tre dischi in solitaria, davvero centrati, il ritorno sulle scene come leader della band con l’ottimo Thrashing Thru The Passion (2019), un ibrido fra una raccolta di singoli e brani scritti per l’occasione, e oggi questo nuovo e brillante Open Door Policy, full length composto esclusivamente da canzoni originali.

Un disco che si allinea perfettamente al consueto stile della band, il cui rock spigoloso e adulto, spesso inquadrato nel mare magnum dell’alternative, è figlio in realtà di un impeto fortemente popolare, contiguo all’arte di musicisti come Springsteen e Petty, e di un suono sovraccarico di pathos ed energia, che unisce in un abbraccio fraterno, artista, gente comune, ultimi e diseredati. Merito della scrittura e, soprattutto, delle liriche di Craig Finn, verboso crooner col cuore in mano, che partendo da riflessioni personalissime, quasi fossero uno sfogo terapeutico per evitare il lettino dello psicanalista, riesce a trasformare la propria soggettiva in una visione universale, in cui non è poi così difficile immedesimarsi.

In tal senso, le canzoni di Open Door Policy si gettano a capofitto nell’attualità e nelle comuni traversie della vita che ciascuno di noi si è trovato ad affrontare, soprattutto in questo periodo buio, sviscerando temi come potere, ricchezza, salute mentale, tossicodipendenza, spiritualità, tecnologia, capitalismo, consumismo, nonché l’arte difficile della sopravvivenza, che è tornata prepotentemente alla ribalta sulla scia della pandemia e, per quanto concerne gli States, della pesante crisi politica e razziale che ha afflitto la seconda parte del 2020.

Dieci canzoni in tutto, che trasmettono un senso di disagio, urgenza e incertezza, e che possiedono la qualità di scrittura e di arrangiamenti che da sempre contraddistingue la musica degli Hold Steady, una band che non si è mai tirata indietro quando si è trattato di scavare sotto la superficie alla ricerca di un messaggio non rassicurante, certo, ma sempre improntato a una indefettibile etica, politica e sociale.

Dieci canzoni prodotte meravigliosamente da Josh Kaufman, che ha affiancato Finn nei suoi ultimi lavori solisti, e che mettono al centro della scena il cantato-non cantato volutamente prolisso del leader, l’afrore aspro delle consuete ruvide chitarre, e un tocco di r’n’b apportato da azzeccati inserti di fiati. Uno stile inconfondibile, particolarmente evidente nella propulsiva The Prior Procedure, nell'urgenza inquietante di Spices o nel tiro springsteeniano di Family Farm.

Canzoni spigolose e potenti, e liriche affilate e profonde, pongono gli Hold Steady in quella lunga schiera di musicisti che si sono fatti poeti o di poeti che si sono musicisti. Una nobile schiatta di artisti che, da Dylan ai giorni nostri, ha sempre cercato, spesso con successo, di mescolare pagine di letteratura e accordi di rock’n’roll. In questo, la band capitanata da Craig Finn, è maestra.


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