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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
26/07/2019
IKE
Osservando la vita senza mai giudicarla
“…giudicando ci auto eleviamo ad un livello superiore sulle altre specie e questo forse non va bene”. (I. De Martin)

Quando viaggio ho sempre l’idea di trovarmi in poca armonia con le tante individualità e i tanti equilibri che trovo. Eppure è solo pregiudizio amatoriale e provinciale che devo ignorare e chiudere in valigia. Una volta forzata la mano, la mia sempre, l’equilibrio degli altri mi diventa familiare, mio come fosse qualcosa di sempre e di normale. E la Terra che si incontra, con le sue molteplici individualità è il vero nucleo portante di questo bellissimo disco di Isaac De Martin, all’anagrafe artistica IKE, musicista da sempre, con radici di Jazz divenute altro nel mondo che pian piano ha raggiunto oltre i confini politici della sua terra. Il mondo è un cantiere come dice il titolo di questo lavoro: “Construction Site”. La storia è semplice: viaggiando ha cucito i fili per congiungere assieme le sue idee e quelle dei suoni amici e colleghi raggiunti strada facendo, ha disegnato i rami e ornato i fogli bianchi, ha fatto combaciare i suoni lasciandoli però liberi di esprimersi… e me lo immagino al chiuso delle camere d’albergo o in alcove radunate dal caso a fare mix e a modellare il melting pot di musiche che ha raccolto da una semina di ispirazioni diverse. Ed è così che la vita diviene ed è così che tutto si rende rappresentazione della volontà.

“Construction Site” diventa un disco che abbraccia paesi e lingue straniere, che ha la forma digitale e le sfumature analogiche, che ha i colori industriali delle grandi metropoli in cui viviamo e i colori tenui dei pastelli colorati usati per il cielo che sogniamo ogni volta che arriviamo in una nuova destinazione. Musica che oltrepassa e polverizza i confini. Siamo a due passi dalle produzioni internazionali di artisti che affidano al bit digitale e alla mano artigiana dei musicisti la narrativa di un mondo che corre in ogni dove.

Ho ascoltato “Construction Site” e vi rintraccio dentro quella leggerezza che sta in chi osserva con curiosità e non trovo la severa attitudine di chi ha la presunzione di conoscere e la banalità di giudizio. Ecco una parola che tanto mi piace da associare a questo ascolto: osservazione. Che non significa guardare… significa proprio “incontrare”.

Non so bene da dove partire. Vorrei raccontare questo disco passandoci accanto, tra concetti e visioni e significati. Io partirei proprio dal titolo che in qualche modo significa cantiere. La vita, la natura, l’uomo… il tutto come un enorme cantiere. Mi pare però che questo cantiere sia proiettato verso un’autodistruzione o sbaglio? E mi pare anche che questo concetto non ci sia nel disco… musicalmente parlando mi arriva invece quella sospensione di chi osserva e non giudica…

Sì, il disco è una sospensione totale di giudizio perché come tutte le forme di vita che sperimentato l’auto miglioramento sulla Terra siamo gli unici (credo) a giudicare, e quindi giudicando ci auto eleviamo ad un livello superiore sulle altre specie e questo forse non va bene (beh! così sto giudicando!). Osserviamo come vanno le cose, siamo lo 0,85% delle forme di vita sulla Terra, una nullità!

Parli di musicisti migranti. Tu per primo hai migrato per incontrare questa musica. Che poi, a pensarci bene, la musica è il primo grande migrante di questa vita tra gli uomini. Dunque, senza cadere in becere etichette di politica sociale, cosa significa per te aver migrato e in generale che significa per te quando parli di migranti?

Oggigiorno i migranti sono al secondo posto nella lista delle cose che fanno notizia, la prima ora è l’ambiente. Quindi a me piace sì parlare di migranti, ossia di persone che si spostano, non strettamente a causa dei conflitti o i cambiamenti climatici. L’Uomo è per sua natura migrante, è nomade, ha una innata tendenza a spostarsi, perché è esploratore di natura. Le migrazioni portano con sé contaminazione e i linguaggi si mescolano e si rinforzano se c’è alla loro base un intento culturale (vedi come è nato il Jazz e cosa è diventato oggi, un codice per capirsi tra musicisti di tutto il mondo).

Restiamo sul concetto di migrazione. C’è tanta parte del mondo che manca. Ovviamente non potevi andare ovunque. Ma la geografia di questo disco è ben precisa? Cioè sono posti che rappresentano per te qualcosa o sono semplicemente traiettorie e tragitti che il caso ha legato a sé?

Sono traiettorie fortuite anche se probabilmente spinte da un desiderio di vedere certi posti del mondo (dell’Europa, in questo lavoro). Poi ad esempio la Bulgaria è una regione che fin da piccolo desideravo visitare e sentirne gli odori, suoni e colori e ho realizzato questo desiderio proprio mentre producevo il disco.

Un altro concetto mi interessa parecchio: in ogni brano si mescola la tradizione di strumenti e dialoghi a volte antichi di generazioni che però si incontrano in un pentolone sonoro che mi sembra voglia in qualche modo omologare il tutto. Omologare è una brutta parola ma ti chiedo di prenderla come sinonimo di collettore. Cioè ho avuto come l’impressione che ad ogni attore della scena, ricco delle sue unicità e personalità, abbia fatto indossare una divisa comunitaria. Non è una divisa volgare né una divisa che invade e copre tutto. Però in qualche modo non hai lasciato che l’antico restasse antico e la tradizione fosse in tutto e per tutto tradizione. O mi sbaglio?

Sai, una sorta di uniformità al lavoro va data, altrimenti sarebbe una compilation e perderebbe unità il tutto. Ho capito molto bene la domanda, penso ad esempio all’arpa celtica che si intreccia ai synth… ne sono usciti dei timbri interessanti proprio perché l’accostamento è azzardato e la mescola va ben dosata e controllata.

Mi incuriosisce tanto anche la copertina di questo disco. Vorrei ce la raccontassi...

La copertina è di Klaudia Kost e Silvia Toja. Klaudia, designer polacca che mi conosce bene ha subito interpretato il disco nel migliore dei modi dando l’input a Silvia (conosciuta all’Accademia di Belle arti di Brera a Milano) di sviluppare il lavoro che ne è uscito (quello della rampa verso il pianeta e non l’elaborato grafico che è stato poi scartato).

E restando sul tema, anche la grafica è frutto di un incontro etnico e culturale. Milano e Polonia. E quindi ti chiedo: hai cercato un incontro multi-etnico anche in merito al lavoro grafico? E, nel caso, che risultati hai raggiunto?

Non era voluto, lo scambio “etnico”, è successo. Ho gli amici un po’ qui e po’ lì e li ho messi in contatto.

Progetti come questi mi riportano inevitabilmente alle operazioni antiche di Alan Lomax, Ernesto De Martino o anche Diego Carpitella. Questo girare e raccogliere la voce del mondo per farne testimonianza, documento, fotografia. Ieri era l’unico modo per conservare. Oggi invece che senso ha secondo te?

Oggi ha senso per raccontare delle storie fresche e che rispecchiano un mondo così globalizzato. C’è un caos totale perché la velocità con cui si entra in contatto con culture diverse è troppo elevata e non siamo preparati a gestirla. Da questo caos creativo ho cercato di fare un po’ di ordine per capirlo in primis io.

Che sia questo il vero significato di Musica Pop?

Sai che non mi dispiace come definizione di Musica Pop??!!


TAGS: ConstructionSite | IKE | intervista | paolotocco