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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
25/07/2022
Taj Mahal
Phantom Blues
Phantom Blues è un album intenso e divertente, che permette a Taj Mahal di ripartire dopo un lungo periodo oscuro. La forza del blues si sprigiona in una serie di brani che si immergono con spensieratezza nel Boogie-Woogie, nel Boogaloo e attingono pure dal funk, offrendo una visione completa delle qualità dell’artista americano. Un uomo nel quale, fin da giovanissimo, scorre tumultuosamente l’amore per la musica: una passione che diventa la motivazione più importante della sua vita.

Un sogno riguardante Mahatma Gandhi e il concetto di tolleranza sociale ispira nel 1960 Henry St. Claire Fredericks Jr., appena diciottenne, a utilizzare il nome d’arte Taj Mahal per la sua vita di artista. Nativo di New York, cresciuto nel Massachusetts, il ragazzo vive in simbiosi con la musica da subito, insieme alla madre, vulcanica insegnante e vocalist in un coro gospel, e al padre, di origini afro-caraibiche, pregiato pianista e arrangiatore jazz. La prematura morte di quest’ultimo, a causa di un tragico incidente in cui rimane coinvolto, spinge ancor più il giovane a seguire le orme del genitore. Si impratichisce con la chitarra e l’armonica -successivamente perfeziona la sua tecnica con svariate tipologie di strumenti, dal banjo alle tastiere- e decide, dopo il diploma in una scuola agraria e l’università, di tentare la sorte e far diventare la sua passione una ragione di esistere, pur avendo raggiunto un livello alto di professionalità lavorando come contadino.

Così si trasferisce a Santa Monica, in California, nel 1964, e forma una band storica, i Rising Sons, con Ry Cooder, trova un accordo con la Columbia Records, riuscendo, però, a pubblicare solo un singolo. Solo quasi trent’anni dopo viene realizzato un disco, con le loro incisioni inedite, che specifica come fossero stati importanti all’epoca, giovani precursori di quanto diventa, in un secondo tempo, patrimonio per Buffalo Springfield, Grateful Dead e Allman Brothers Band.

In seguito Taj Mahal comincia la carriera solista, accompagnato dallo strepitoso chitarrista Jesse Ed Davis, vero re della slide, e registra una serie di LP notevoli tra il 1968 e 1977. Il blues in tutte le derivazioni compare come marchio istantaneamente riconoscibile nelle sue opere, miscelato con musica indiana, caraibica e un tocco di jazz. L’artista americano scompare invece completamente di scena negli Ottanta, momento difficile per chi è caratterizzato da un background e da sonorità come le proprie. Si trasferisce sull'isola hawaiana di Kauai - vi resterà fino a metà Novanta - per ritrovare tranquillità, lavora comunque molto come freelance, senza aver direttamente una casa discografica di riferimento, e comincia la risalita sul finir del decennio con un prodotto inaspettato e originale: Shake Sugaree-Taj Mahal Sings and Plays for Children.

 

"Negli anni Ottanta non ero legato a un'etichetta discografica, ma mi sono dato da fare componendo pezzi unici e altro materiale particolare. Durante questo periodo di pausa, ho scritto un gruppo di canzoni per bambini e ho pubblicato un album nel 1988, che mi ha conferito un’energia inaspettata”.

 

Ecco quindi la inattesa svolta per rilanciarsi, grazie a un’avventura diversa che, nel 2004 avrà pure una continuità; Mahal viene invitato a collaborare per una serie animata della PBS Kids e compone la sigla di Peep and the Big Wide World.

 

“Mi hanno chiesto di venire a creare un tema per il loro spettacolo. Ci siamo trovati un pomeriggio, abbiamo visto alcuni cartoni animati e abbiamo architettato un pezzo proprio lì... sul momento! Era una melodia che mi girava per la testa da un po' di tempo e quella era una buona collocazione. Molti bambini vengono da me (ai suoi concerti ndr) e mi domandano se ho intenzione di suonare questa canzone.  A loro piace molto anche "Squat that Rabbit", da un mio disco del 1991, Like Never Before”.

 

E torniamo proprio a Like Never Before, 1991. Qualcosa sta cambiando. Nel mondo riparte un revival per il blues. Protagonisti storici come Buddy Guy e B.B. King tornano alla ribalta, nuovi “alunni” geniali, da Robert Cray a Jeff Healey raggiungono il grande pubblico, si piange la scomparsa incolmabile di Stevie Ray Vaughan, mentre Eric Clapton dopo tanto vagabondare tra pop, reggae e country si concentra nuovamente sul genere al 100%, con il pluripremiato From The Cradle (1994). Taj Mahal trova forza e coraggio per virare nuovamente su ciò che sa far meglio e dopo un paio di progetti comunque considerevoli - Dancing the Blues e Mumtaz Mahal - esce con il bellissimo Phantom Blues nel 1996. Quattordici tracce variegate, alcune con special guests da favola, prodotte da un veterano quale è John Porter, il cui maggior pregio in carriera sicuramente risulta l’essere riuscito a tirare fuori l’eccellenza da gruppi e musicisti di ogni declinazione, da Bryan Ferry agli Smiths, da Otis Rush a John Lee Hooker, rispettando sempre il loro background.

L’inizio è scoppiettante per merito di una vivace e romantica ballata, "Lovin’ in My Baby’s Eyes", con la gradita sorpresa del “capitano degli Heartbreakers”, Mike Campbell, alla 12-string guitar.  Si tratta dell’unico brano autografo della raccolta, composta principalmente da cover scelte con cura, mai scontate, che permette di calarsi immediatamente nell’atmosfera tipica di Taj, il quale, per l’occasione si accompagna con il dobro e l’armonica; a voler cercare un difetto è un peccato che nel prosieguo dell’opera si cimenti solo al canto, abbandonando subito l’idea di suonare, ma i sessionmen di gran classe e gli ospiti presenti fortunatamente non fanno rimpiangere troppo questa scelta.

 

La versatilità di Phantom Blues è uno dei punti di forza, perché consente di coprire gran parte delle esperienze di un autore continuamente alla ricerca di nuovi spunti, amante della tradizione e al contempo voglioso di modernizzare i suoni delle radici. "The Hustle is On" è un tuffo nel Boogie-Woogie e pesca dal repertorio di T-Bone Walker, che viene omaggiato anche nello slow blues "Here in the Dark", in cui eccelle alla chitarra l’amico Eric Clapton.  Sempre Slowhand non può mancare quando si parla di Freddie King e del suo classico "(You’ve Got To) Love Her With A Feeling". Questi tre brani, insieme alla ballata soul con cori gospel "Fanning the Flames", scritta per l’occasione dal fidato collaboratore John Cleary, - suo pure il modern blues di "Cheatin’ On You", traccia numero due in scaletta -, dimostrano le capacità vocali di Taj Mahal, personaggio di indubbio magnetismo e fascino, saggio nel condividere con John Porter anche un delicato gusto per la sezione fiati. Infatti sono imprescindibili il sax tenore e la tromba dei fenomenali Joe Sublett e Darrell Leonard, i Texacali Horns, che imprimono un vero marchio di fabbrica con la loro presenza in gran parte del lavoro.

"I Need Your Loving" è un classico dell’R'n'B divenuto una hit a metà sessanta per merito di Otis Redding e qui interpretato con Bonnie Raitt. Se l’esecuzione risulta impeccabile, lascia l’amaro in bocca ascoltare la Regina della slide solo come vocalist, senza godersi i miagolii della sua Fender, ma il tempo scorre veloce grazie a una tracklist che non concede tregua. "Ooh Poo Pah Doo", composta da Jesse Hill, da lui pubblicata nel ’60, oggetto di una lunga serie di interpretazioni, alcune peraltro famose, sconfina nel territorio di Ray Charles, e scorre un brivido quando si odono strumenti come il trombonium e il chamberlin, mentre "Lonely Avenue" di Doc Pomus ha echi Boogaloo, ove il già citato Jon Cleary al piano e il leggendario organista Mike Weaver dimostrano di che pasta sono fatti.

 

“Ho sempre adorato comporre e interpretare musiche arrangiandole in un modo che non si era mai sentito prima". Le mie idee includevano una fusione del blues con il rock, condita con un sacco di southern soul. Il piatto risultante? Il genere che divenne noto come southern rock e che contribuì a dominare gli anni Settanta”.

 

Certamente in Phantom Blues non troviamo nuovi cavalli di battaglia per Mahal come lo erano stati gli indimenticabili "Statesboro Blues" e "She Caught the Katy", resi ancor più celebri da Allman Brothers Band e Blues Brothers, però ascoltare la rilettura black, alla Bill Withers, di un pezzo recente, "Don’t Tell Me" (1995) presente in un progetto di Al Kooper, e il funk sporco di "The Car Of Your Dreams", altro brano ad hoc composto da James Kelly proprio per questo LP, rinforza l’idea che sia possibile percorrere la strada del blues con modernità e valorizzarne le diramazioni in altri generi. In particolare quest’ultima canzone è caratterizzata da un doppio attacco di chitarra e clavinet, con una sezione ottoni infuocata, quanto la slide di Porter. Rimangono da ricordare "What Am I Living For?" e "We’re Gonna Make it", due standard portati al successo da Chuck Willis e Little Milton, qui ristudiate in lussureggiante chiave rhythm and blues; degno di un capitolo a parte è invece il tributo a Fats Domino intitolato "Let the Four Winds Blow", uno swamp pop all’aroma di Los Lobos macinato dalla fisarmonica di David Hidalgo. Il motivo incorpora influenze zydeco e cajun e concede un finale galoppante con tromba e sassofono da marching band, che si cercano e rincorrono fino al termine.

 

La carriera di Taj Mahal, rinvigorita dall’ottimo Phantom Blues, subisce una piacevole impennata: da segnalare tre Grammy, grazie a Senor Blues (1997), Shoutin’ in Key (2000), con la Phantom Blues Band, e TajMo (2017), insieme a Keb’ Mo’; si evidenziano, inoltre, alcune collaborazioni interessanti, fra cui quella con la Hula Blues Band, la realizzazione di Maestro (2008), un piccolo capolavoro sconosciuto ai più, e infine una piacevole rimpatriata con Ry Cooder nel recentissimo Get On Board, uscito a maggio quest’anno. Tutto ciò, ovviamente, in mezzo a tanta musica dal vivo, con la chicca della partecipazione al Crossroads Guitar Festival (2013) proprio con Keb’ Mo’.

Grande e misterioso sotto il suo caratteristico cappello a tesa larga, Mahal festeggia ottant’anni con un mini tour in America quest’estate. Un personaggio incredibile, che ha recitato pure in alcuni film e fatto innamorare artisticamente di lui i Rolling Stones. Un uomo che adora stare a contatto con la gente e ama il suo pubblico.

 

“Sono estremamente fortunato ad avere fan che hanno ascoltato la musica che ho scelto di suonare e sono rimasti con me da più di mezzo secolo. Queste meravigliose persone hanno anche introdotto i loro figli, nipoti, e in alcuni casi pronipoti, a questo favoloso tesoro musicale che ho il privilegio di rappresentare. È a dir poco emozionante”.