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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
06/03/2023
Le interviste di Loudd
Pin Cushion Queen: suoni, forme e favole nuove
Ho misurato il tempo dentro un disco che al tempo affida un senso di inadeguatezza, di ricerca e di insoluta quiete. "Stories" ha il pregio di aver saputo misurare ogni piccolo tassello di suono e di scenario con una potenza cinematica che mi ha stregato sin dal primo ascolto.

“Quanti hanno un buon rapporto con il tempo? Nel mondo dell’efficienza a tutti i costi ci sembra sempre di non averne abbastanza, di non fare abbastanza, di aver perso tempo”

(Pin Cushion Queen).

 

Da una favola sembra arrivare ogni cosa. Sono radici allegoriche e non sono mattoni di cemento. Non sono riferimenti per marcare la realtà, né scuse buone per girarle le spalle e guardare in un luogo-non luogo dentro cui ognuna di quelle cose può trovare una ragione plausibile. E neanche sono morali facili per dar ragione alla realtà degli adulti. Ragione, una parola importante per un disco come Stories, un vinile dai colori scuri, di tonalità metalliche; qualche segno del tempo sembra aversi sulla ruggine dei bordi ma per il resto c’è fumo lungo le vie apocalittiche di città ormai sospese.

Sospensione, altra parola buona. Perché nel tempo-non tempo di Stories si resta, sospesi, come dentro le coralità ataviche di una favola di Tim Burton nella primissima “The Haunted” o come dentro le incertezze noir di “Little Boy”, e tutto questo si alterna con la contemplazione di ritmiche urbane di “Hiccoughs” che lascia spazio alle ostinazioni metalliche di “We Saw You Fall” prima di fare in modo che l’ascolto plani con una sorta di resa incondizionata dentro ambienti eterei di apocalissi insperate.

Ho misurato il tempo dentro un disco che al tempo affida un senso di inadeguatezza, di ricerca e di insoluta quiete. Stories non ha quel peso specifico di qualcosa che alla forma chiede soluzioni buone per il mercato della pubblica piazza. Stories sembra anche di non avere il carattere trasgressivo che per forza a libertà associa significati di trasgressione a tutti i costi. Stories ha il pregio di aver saputo misurare ogni piccolo tassello di suono e di scenario con una potenza cinematica che mi ha stregato sin dal primo ascolto.

Ed io alle visioni chiedo molto soprattutto quando perdo (e con bellezza romantica intendo) quella ragione matematica che hanno tutte le cose. Perdersi non è la soluzione. Navigare a vista, certamente, ma con quel gusto primigenio di chi sa che nella scoperta trova una vera ragione di vita. Ragione, si torna sempre ad usare questa parola.

 

 

Appena ho poggiato la puntina sul piatto ho sentito di far parte di un lugubre cartone animato e Tim Burton certamente ha la meglio. “The Haunted” sicuramente è un manifesto in tutto questo. E allora partiamo da qui: l’immaginario che fa scrivere questo disco è quello di una favola o di una realtà??

Se la favola è una rappresentazione in cui i contorni sono netti e marcati per “tagliare” e semplificare la realtà in modo da affrontarne un aspetto alla volta, allora no: probabilmente in Stories non troviamo favole. Se per realtà si intende il concreto insieme di dati di fatto che ti inchiodano a un’unica dimensione, a una sola possibilità interpretativa, a maggior ragione Stories non ha a che fare neanche con la realtà. Nel disco a noi sembra di riconoscere delle caratteristiche che si avvicinano di più al sogno, con diverse ipotesi per ogni episodio, confini sfumati, contraddizioni, dubbi. Come spesso succede con i sogni, al risveglio è inutile cercare di ricordare, di fissare dei momenti e di afferrare un senso, perché questo scivola via. L’unica cosa certa che il sogno lascia è la sensazione, si spera intensa, che ti ha attraversato.

 

Poi in piccoli istanti, il suono, pur restando distopico, sembra cercare punti di luce, e lo fa anche con ansia, con una frenesia che diverte anche. Non so se mi spiego, ma sento una certa agitazione nella scrittura e nello sviluppo. È una mia impressione??

Sicuramente il passo è inquieto, incerto anche quando si fa marziale o rabbioso per darsi forza. È un’impressione che abbiamo anche noi. Vale anche per i momenti di “luce” che certi brani cercano con ansia. Mettiamola così: probabilmente il disco non racconta il punto di vista di un antagonista, di un villain che vuole un qualche male, ma la corsa di un protagonista, in cui non dovrebbe essere difficile immedesimarsi, e che tenta di non perdersi nel labirinto di possibilità. Ma è solo il nostro modo di vedere e, ovviamente, non esiste quello giusto.

 

“We Saw You Fall”: l’ansia e l’ostinazione qui prendono delle pieghe quasi rituali. Prima di tutto questo: c’è una qualche dimensione sacrale in questo brano come anche nel resto del disco? Che rapporto ha Stories con Dio e con l’occulto?

?L’embrione di “We Saw You Fall” aveva già in sé un rimando chiaro, cosa che nel disco è piuttosto rara: fin dalle prime improvvisazioni in cui la provavamo, la voce ricordava una preghiera, il canto di un muezzin che chiama a raccolta, la formula di un rito. “We saw you fall” è uno di quei momenti di Stories in cui si possono trovare slanci che richiamano una qualche spiritualità, ma sono destinati a naufragare nell’indefinito, in passaggi che portano da tutt’altra parte e frustrano questa aspettativa. Soprattutto di “sacro” forse c’è la veste, l’intenzione profonda, non un messaggio distinguibile, di cui si possa parlare. Anche il testo, che come sempre abbiamo scritto lasciandoci ispirare dalla melodia già composta, parla dei migranti morti nel Mediterraneo in un modo tutt’altro che convenzionale: prima sembra raccontare i fatti dal punto di vista dell’Occidente quasi con arroganza, poi sembra voler chiedere goffamente perdono, ma in realtà è un modo grottesco di invocare una punizione su sé stesso. Insomma non ci sono salvi e dannati: dov’è il sacro?

 

E poi parliamo del suono di questo brano: un suono che molti richiama lo scandire del tempo da un orologio antico, almeno questo mi sembra; che suoni sono questi??

Gli elementi ritmici, in effetti, si incastrano in una sorta di enorme ingranaggio meccanico, per cui l’accostamento all’orologio indubbiamente funziona. Anche perché il brano non esplode mai in un tutto tanto fragoroso da non permettere più di seguire il singolo strumento. Per quanto riguarda il suono, tra gli elementi ritmici c’è una batteria acustica, delle percussioni elettroniche e un pattern ricavato da un sintetizzatore digitale. Con lo stesso synth digitale abbiamo costruito il “drone” fondamentale (che forse ha un effetto stranamente “analogico”) e tutti gli altri suoni presenti. Forse è questo che dà l’ambientazione algida che cercavamo.

 

Parliamo delle dissonanze di “Little Boy”? Qui inizia il lato “scuro” del disco e l’ostinazione lascia il passo a riflessioni ubriache di un suono che non segue mai un percorso prestabilito, anzi devia e tutto sembra sghembo, cocktail che ritrovo anche poi nella successiva “Scissors”.

In realtà per noi sono due brani molto diversi. Condividono l’uso delle chitarre (che sono poche nel disco), la voce in entrambe è appesa a un filo e sono pezzi con dinamica e Bpm piuttosto bassi. Possibile che sia questo che fa pensare agli stessi ingredienti. Ma i ruoli di chitarre e canto sono invertiti: in “Scissors” è la voce ad avere una parte meno convenzionale, con piccoli passaggi cromatici e un senso di tensione, mentre in “Little boy” è la chitarra a portare la tensione della dissonanza e cantiamo una parte più immediata, più semplice da seguire. Inoltre, l’impalcatura e l’intento sono lontanissimi. “Little boy” è fredda, scura, cruda, senza decorazioni e pochissimi strumenti, con una struttura da canzone (strofe e variazioni sono riconoscibili e in una sequenza che potremmo dire standard). Mentre “Scissors” ha un che di caldo, con tanti colori e strumenti diversi che si scambiano a seconda delle parti, oltre a una struttura che non ha niente di convenzionale (la prima strofa c’entra poco con la seconda e il “quid” melodico si trova solo una volta in mezzo al brano per non ripetersi più). L’andamento “sghembo” è dovuto al ritmo poco scandito e alle parti larghe, probabilmente. Ma le idee che esprimono i due brani a noi sembrano molto lontane.

 

In questo lato del disco, in tutta questa parte riflessiva e meno “new wave” apocalittica, torna sovente quel suono ricorsivo che scandisce il tempo proprio a sembrar pendolo d’orologio. Eppure tutto il lavoro sembra alterare il tempo, giocarci, confonderlo, e dunque i PCQ col tempo che rapporto hanno? Col tempo scritto nelle canzoni e col tempo vissuto sulla propria pelle…??

Quanti hanno un buon rapporto con il tempo? Nel mondo dell’efficienza a tutti i costi ci sembra sempre di non averne abbastanza, di non fare abbastanza, di aver perso tempo. È un aspetto si accompagna a una sensazione costante di inadeguatezza, di incertezza, di un nostro essere che non è mai in linea con le aspettative. Forse Stories è un disco figlio del suo “tempo” e, quindi, parla proprio di tutto questo, come quel protagonista di cui dicevamo prima e che cerca di non perdersi nel mare di possibilità. ?

 

“The Expedition”: il disco si chiude e lo fa ancora con suoni gutturali, come di un didgeridoo sacro che da sotto sorregge ogni profezia: che cosa c’è alla fine di questo lungo viaggio? L’uomo o le sue illusioni??

Se si ascolta il disco dall’inizio alla fine, “The expedition” potrebbe dare l’impressione della fine del sogno, o dell’illusione, l’attimo prima di riaprire gli occhi. Ha dei toni decisamente più luminosi, anche se in qualche modo malinconici. È il momento in cui ci si prende il tempo di smaltire i dubbi e la tensione, di riconciliarsi con sé stessi e la notte appena passata, che non è più qualcosa di cui aver paura. Tu e le tue illusioni non siete più distinti e non c’è bisogno di contrapposizioni.

 

E in ultimo l’immagine di copertina: l’uomo come figlio di questa terra, frutto, deriva, oppure l’uomo come intrappolato dalla propria stessa identità?

?L’autore del dipinto in copertina è Giuseppe Adamo, che ha lavorato con in mente alcuni dei brani che poi sono stati inseriti in Stories. Ma non abbiamo mai parlato con lui di una possibile interpretazione di questo lavoro. A noi è sempre sembrato un bambino, e non un uomo, con un’espressione ambigua, difficile da decifrare. E il misterioso così si presenta fin dal primo contatto con Stories.