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REVIEWSLE RECENSIONI
12/10/2021
Robben Ford
Pure
Quando si crea un album interamente strumentale, il rischio è di risultare a tratti noiosi. “Pure” di Robben Ford, maestro indiscusso della chitarra, invece, è gradevole, attuale e ricco di spunti. Ecco come si può rappresentare la scena jazz-blues-fusion di questi tempi, a cavallo tra modernità e rispetto per il passato.

Robben Ford è un artista poliedrico che ha intriso la sua carriera di esperienze variegate. La sua intensa attività solistica, dal brillante esordio Schizophonic all’acclamato Talk To Your Daughter sono la carta d’identità di un autore che ha saputo consolidarsi nel tempo e confezionare piccoli capolavori come Keep On Running e il recente Purple House. Non sono da meno le collaborazioni che hanno coinvolto svariati attori del music business: come non ricordare Bob Dylan, George Harrison, Miles Davis, Marcus Miller, Joni Mitchell, Michael McDonald, Sonny Landreth e Larry Carlton? E parliamo solo della punta dell’iceberg.

Ora, a distanza di due anni dall’acclamato The Sun Room arriva un nuovo album, interessante incrocio di stili, in cui blues e jazz vanno a braccetto, accompagnati da rock, funky e una spruzzata di rhythm and blues, elementi cari al concetto della fusion, parte integrante della storia del musicista.

Pure rappresenta una piccola rivoluzione per il chitarrista californiano, ora di stanza a Nashville: se da una parte il suono delle sue sei corde –da una D-25 acustica alle amate Fender Telecaster ’52 e ’60, fino alla Gibson e all’Epiphone Riviera ‘66- utilizzate per il progetto rimane unico e inconfondibile, dall’altra troviamo un disco interamente strumentale che arriva quasi venticinque anni dopo la stessa esperienza provata per Tiger Walk, ma con una tecnica di registrazione completamente diversa. Potente uso del riverbero, sapiente ricerca di modernità, ma soprattutto la scelta di controllare tutta la produzione insieme a Casey Wasner, costruendo l’intera ossatura della maggior parte delle canzoni e solo successivamente aggiungere alcune sovraincisioni, lo hanno portato a un lavoro prettamente individuale, “puro”, come si evince dal titolo, nel senso di più vicino a quanto Ford volesse esprimere soggettivamente, senza l’intervento di altri musicisti a “sporcare” le idee. Tutto questo ha corso ovviamente il rischio di autoreferenzialità, brillantemente sgominata dall’entrata in scena successiva di sei differenti batteristi, quattro bassisti e due sassofonisti.

Dopo "Pure (Prelude)", che introduce i nuovi concetti sonori su cui l’autore intende lavorare ed è l’antipasto della title track, si comincia subito forte con un meraviglioso raffinato shuffle, "White Rock Beer…8cents", reso elegante dai sassofoni del fedele compagno Bill Evans e dello stupefacente Jeff Coffin, da parecchi anni ormai membro della Dave Matthews Band e precedentemente con Béla Fleck. Armonia e tonalità immediatamente riconoscibili si dipanano in quasi sei minuti di vigoroso rock blues, una delle vette dell’opera, che fa ricordare quella "Cannonball Shuffle" pubblicata nel 2003 e ripresa dall’epico instancabile John Mayall nel tributo a Freddie King uscito quattro anni dopo. "In the Palace of the King", oltre ai classici appunto di Texas Cannonball, il “Padrino del British Blues” inserisce in scaletta la composizione di Robben che figura pure come lead guitarist.

"Balafon" sorprende invece per freschezza e intimità: pur avendo i suoi momenti forti, con chitarra, basso e percussioni in primo piano, è una ballata calda, avvolgente e sofisticata, con appena una carezza di Wurlitzer piano da parte di Russell Ferrante -nel resto del lavoro le tastiere verranno aggiunte sempre da Ford- e una melodia che a tratti ricorda "People Get Ready" degli Impressions. L’atmosfera eterea prosegue in "Milam Palmo", il cui riff si stempera in frequenti cambi di accordi, il tutto studiato per sorprendere i palati più fini, mentre in "Go", lo dice già il titolo, si decolla con un groove avvolgente. Sembra di trovarsi in un disco di Marcus Miller e David Sanborn e l’incedere soul del brano, con i due sassofoni allegri e correlati come fossero gemelli, viene scartavetrato e trasformato in un funky delirante pilotato dal poderoso bassista Anton Nesbitt, insieme al batterista di scuola jazz Nate Smith. A fare il bello e cattivo tempo in questo groviglio di suoni ci pensa la “Telecaster ‘60” del padrone di casa, che erutta un solo memorabile.

Se "Blues for Lonnie Johnson" denota la duttilità di Robben Ford, come sempre abile a cimentarsi nelle dodici battute, "A Dragon’s Tail" sembra un pezzo di Jeff Beck per quanto scardina con semplicità ogni regola del blues rock, utilizzando un forte riverbero e scorrazzando dall’heavy al melodico con ben tre chitarre in primo piano, tra cui la Epiphone Riviera al massimo della distorsione, come se stesse esplodendo.

“Ascolto molta musica indiana, ci sono artisti davvero molto profondi, dalle sonorità stupefacenti. Così ho avuto l’ispirazione per la title track, “Pure”. Mi è uscita una melodia esotica su cui ho lavorato sopra parecchio, usando una Paul Reed Smith McCarty…”

Pure effettivamente rimane la traccia più sorprendente, lontana dall’atmosfera creatasi nell’album. Non sembra essere la più riuscita, ma è ricca di esperimenti ed elaborazioni che hanno spinto Ford a scostarsi dall’idea originale del brano e, con una nuova improvvisazione, senza overdubs e tagli, ha portato a termine la registrazione.

"If You Want Me To" è la degna chiusura del viaggio musicale del chitarrista, che ci ha accompagnato in un percorso pregno di contaminazioni e per l’ultimo motivo in scaletta scorrazza addirittura nel pop, ma questo ondeggiamento verso territori inusuali si infrange in uno splendido assolo di basso acustico, dove Brian Allen riporta tutto all’interno dei confini del jazz.

“Attualmente non vedo più gente cercare di dire alcunché attraverso la musica, si vuole solo fare soldi con essa. Credo, invece, che sia importante comunicare qualcosa denso di significato, reale, piuttosto che scrivere spazzatura e cercare di venderla.”

Sono parole di alcuni anni fa e rappresentano la sincerità di Robben Ford. Incarnano perfettamente cosa significhi fare musica per lui e soprattutto racchiudono il concetto da cui è nato Pure, un disco senza compromessi, come il suo autore.