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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
26/04/2018
Ritmo Tribale
Quello che poteva essere...
Difficile che per tutti loro il ritorno dei Ritmo Tribale possa significare qualcosa. Hanno una sezione ritmica davvero devastante e la chitarra di Rioda ieri sera era tagliente come non mai. Hanno in repertorio canzoni meravigliose, assolute, definitive. Eppure suonano datati, fuori epoca, alieni.

Difficile smettere quando hai fatto la storia del rock italiano. I Ritmo Tribale non hanno mai raggiunto il vero successo commerciale ma sono alla base della migliore declinazione italica di quella musica, quella che ha dato i suoi frutti più limpidi e meno smaccatamente esterofili, assieme a gente come Afterhours e Casino Royale.

Chi scrive non li ha mai vissuti di persona, semplicemente perché poco consapevole e niente affatto in grado di capire che cosa stesse davvero bollendo in pentola dalle nostre parti. Qualche recensione, qualche video su MTV (o era ancora Videomusic?) e niente di più. Li ho recuperati dopo, sull’onda di un enciclopedico, pedante e anche un po’ sterile colmare le lacune. Mi piacciono tantissimo, ovviamente e mi sarebbero probabilmente piaciuti anche all’epoca. Ma non sono miei, non lo sono mai stati e mai lo saranno.

E comunque sono ancora qui a vederli dal vivo, il mio terzo concerto dopo quelli di Erba e di Milano dello scorso anno. Chissà se anche loro lo avrebbero previsto. Esattamente un anno fa, all’atto di congedarsi da un pubblico adorante, dopo aver messo a ferro e fuoco il Rock Centrale (un buco dalla pessima acustica ma era stato lo stesso un concerto incredibile) avevano detto, un po’ beffardi: “Ci rivediamo tra dieci anni!”.

Invece a settembre eravamo ancora sotto al palco, questa volta al Magnolia, questa volta per uno show molto meno convincente, seppur come al solito abrasivo, violento e quindi, nonostante tutto, godurioso.

In quell’occasione si erano sentiti addirittura tre o quattro brani sconosciuti, che avevano tutta l’aria di essere pezzi nuovi. Avevo chiesto al tizio del merchandising, che aveva l’aria di essere un vecchio amico della band: “Si sono rimessi a scrivere.” la sua laconica risposta. E tutto ricominciò di nuovo.

Il Legend Club è un altro buco, col palco basso e la visuale praticamente inesistente se ti trovi anche solo in terza o quarta fila. Sono tra i più giovani e un po’ mi consola, un po’ mi intristisce: non c’è futuro, per la musica che abbiamo amato. Siamo finiti in una guerra generazionale che saremo tristemente destinati a perdere. Un po’ li capisco, gli irriducibili che si aggrappano disperati ad una musica di cui rivangano una oggettiva superiorità che nessuno è ancora riuscito a dimostrare. Dev’essere dura, quando vedi il tuo mondo scomparire giorno dopo giorno. Succederà anche a me, magari. Non ve lo farò sapere, però. La mia vittoria sarà smettere di scrivere e stare in silenzio ad ascoltare.

Comunque il posto è bello pieno, ci sono un sacco di facce allegre, benché attempate e ad un certo punto si intravede anche l’ex Afterhours Giorgio Prette. Faccio notare ai miei amici che magari di lì a poco si paleserà anche Manuel Agnelli ma mi ridono in faccia. In effetti è un po’ ridicolo pensarlo. Due anni fa mi spintonò al concerto dei Cure ma loro erano i Cure. Non esattamente la stessa cosa, no?

All’entrata veniamo accolti dall’opener della serata che, tanto per cambiare, ha iniziato in ritardo. Si chiamano Jennypiccalo, non li ho mai sentiti nominare e fanno un rock duro, diritto e scontato che mi ha ricordato i Negrita ma che in realtà è un insieme dei più triti luoghi comuni della nostra italica terra, quando si approccia alla musica. Non mi hanno impressionato, purtroppo, ma non credo che un mio eventuale endorsement sarebbe loro servito molto. Più che altro, la cosa che mi ha lasciato di stucco (ma neanche troppo) è di quante chitarre ci fossero negli anni ’90 e di quante poche ce ne siano adesso. L’ho visto nel set dei Jennypiccalo, l’ho visto nella selezione di brani diffusa prima dell’arrivo degli headliner. Recentemente ho letto un articolo (non dirò volutamente né dove né di chi) che sosteneva come la scomparsa delle chitarre fosse da collegare alla morte della (buona) musica. Ogni commento è superfluo, ovviamente.

Credo piuttosto che sia un ciclo, come dicevamo ieri sera: prima o poi torneranno di moda anche queste sonorità. Nel frattempo, noi di sicuro non ci annoiamo, visto quello che c’è in giro.

Il concerto dei Ritmo è bellissimo e sorprendentemente non viene viziato da nessun problema tecnico. Fila tutto liscio, loro sono in palla, i suoni sono ottimi e il tiro è quello dei vecchi tempi (se li avessi visti ai vecchi tempi): non sono mai stati dei musicisti granché dotati, da quel che so, ma sono compatti e precisi e spaccano davvero tutto, con una potenza da ragazzini ma con una consapevolezza che solo l’età matura può dare.

Scaglia non è Edda ma una reunion con Edda non avrebbe nessun senso. Un po’ perché Scaglia, nel gruppo, ha sempre cantato; un po’ perché già “Bahamas”, che non era nient’affatto brutto (come anche gli estratti di questa sera dimostrano in pieno), era stato registrato senza di lui; un po’ perché i tempi sono cambiati, Stefano Rampoldi si è (più o meno) ritrovato e ha intrapreso una carriera solista di tutto rispetto.

Quindi va benissimo Scaglia dietro al microfono: che poi è carismatico, ha potenza e sul palco fa una bella scena. Vocalmente è limitato, certo, ma ha imparato a gestire bene i pezzi vecchi (alcuni non li potrà mai fare ma pace) e quelli nuovi, scritti direttamente per le sue corde, non destano preoccupazioni e sono anche comprensibilmente più centrati.

Già, i pezzi nuovi. Ne abbiamo ascoltati cinque, se non vado errato, la maggior parte dei quali erano stati anticipati nelle scorse settimane da piccoli clip di una trentina di secondi l’uno. Sono gran bei pezzi, secondo me. Lo stile è sempre quello, diciamo che si sente l’impronta di “Bahamas” ma molto più accelerato, molto più potente. In particolare, il brano con cui hanno aperto era scuro, violento, con una voce che sul finale era al limite del growl. Chitarre pesanti, quasi a la Pantera in certi tratti, un po’ come accadeva su “Psychorsonica”, che era il disco che un po’ a quelle sonorità aveva strizzato l’occhio (una “Base luna” molto carica ascoltata ieri me l’ha riconfermato). Per il resto, sono loro in tutto e per tutto ma non appaiono né arrugginiti né ripetitivi. Mi sono piaciuti tutti al primo ascolto (in realtà due o tre li avevano già fatti a settembre, se non ricordo male) e penso proprio che sarà un gran disco.

Il resto del concerto è filato via liscio, con una selezione dei soliti classici, senza nessuna sorpresa. “L’assoluto”, “La mia religione”, “Uomini”, “Oceano”, “Universo”, “Sogna”, fino all’ultima, che non poteva non essere “Circondato”. Magari si avrebbe voglia di ascoltare qualcos’altro ma per ora va benissimo così, sono appena tornati dopo dieci anni (e anche allora non è che suonassero tutti i giorni, anzi), lasciamoli fare un po’ quello che vogliono.

Rimane una domanda, osservando il pubblico di reduci, ascoltando i nuovi pezzi, con quel loro sapore anni ’90 stampato addosso: che senso ha tutto questo? Voglio dire, ce l’ha per noi, ovvio. Per me che non li ho mai visti e che posso finalmente vederli. Per il mio amico che li vide all’epoca e che è contentissimo di vederli ancora. Per noi che eravamo lì. Ma per tutti gli altri? Per i ragazzi che tra qualche giorno mi troverò accanto al concerto di Cosmo? Per quelli che stanno prendendo confidenza col nuovo Motta? Per quelli che aspettano il disco di Calcutta come non si aspetta nient’altro nella vita?

Difficile che per tutti loro il ritorno dei Ritmo Tribale possa significare qualcosa. Hanno una sezione ritmica davvero devastante e la chitarra di Rioda ieri sera era tagliente come non mai. Hanno in repertorio canzoni meravigliose, assolute, definitive. Eppure suonano datati, fuori epoca, alieni.

Per cui, anche se il nuovo disco sarà bellissimo (come senza dubbio accadrà), che i Ritmo Tribale siano tornati non fregherà un cazzo a nessuno. Non sposterà nessun tipo di equilibrio, non lo scriveranno su Rolling Stone (e meno male, in effetti!); ci saremo noi, ovviamente, a gioire. Ma a qualcuno frega qualcosa di noi?

In mezzo a tutte queste riflessioni sterili, però, ieri notte, tornando a casa, mi è venuto in mente il ritornello di uno dei pezzi nuovi, che s’intitola probabilmente “Le cose succedono”. Dice così: “Io non voglio vivere in memoria di me, io non voglio vivere in provincia di quello che poteva essere.”. Ecco. Quello che poteva essere molto probabilmente è già stato e non si cambierà. I Ritmo Tribale non sono esplosi allora e non esploderanno certo adesso. Eppure, che possano essere di nuovo qui, senza celebrarsi come un pezzo da museo ma con nuova musica da donarci con entusiasmo, questo è il grande e unico valore di una reunion del genere. E lo dice uno che ascolterà senz’altro anche il disco di Calcutta.