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REVIEWSLE RECENSIONI
22/07/2021
Moby
Reprise
Moby rilegge il meglio del suo repertorio in chiave acustica e orchestrale, rilasciando uno dei dischi più belli di una straordinaria carriera ormai trentennale

Grazie a un album come Play, uscito nel 1999, e al successo che ne è derivato, Moby avrebbe potuto vivere di rendita tutta la vita. Invece, l’eclettico dj/produttore ha continuato a scrivere canzoni che hanno attraversato due decenni, e ha esplorato, nel corso degli anni, numerosi spazi sonori che l’hanno fatto approdare a quest’ultimo Reprise, un disco che rilegge il meglio del suo repertorio, riproposto in chiave orchestrale e acustica. Quattordici brani in scaletta, che provengono da Play, ovviamente, ma anche dall'altro successo mainstream di Moby, 18 del 2002, e poi, ancora, da Hotel del 2005, Innocents del 2013, dall'omonimo debutto del 1992 e da Everything Is Wrong del 1995.

È solo un piccolo assaggio del variegato mondo musicale di Moby, eppure, grazie all’ottimo lavoro in fase di arrangiamenti e alla presenza di svariati ospiti, alcuni noti, altri meno, Reprise possiede una propria coerenza e vitalità, e sembra davvero abbracciare in modo esaustivo la trentennale carriera del musicista newyorkese.

Un disco che si muove su un terreno acustico, a volte quasi intimo, ma non per questo privo di enfasi ed energia. E’ il caso, ad esempio, di Why Does My Heart Feel So Bad (da Play) e, ancor di più, di Lift Me Up, trainata da un basso pulsante e avvolta dal respiro profondo degli archi: un brano trasfigurato, ma ancora vivo e in salute, che ha perso il suo battito sintetico, sostituito da quello, non meno vivido, del cuore.

Sono rivisitazioni davvero azzeccate, quelle di Moby, riletture che trasformano brani arcinoti in qualcosa di estremamente eccitante, che piacerà, ne sono sicuro, anche ai fan della prima ora. In tal senso, l'orchestrazione dalla Budapest Art Orchestra possiede un ruolo che non può essere affatto sottovalutato. Si pensi all’opener Everloving, una delle gemme di Play, introdotta anche qui dalla chitarra acustica, ma poi rivisitata, nel suo incedere lento e magniloquente, attraverso il suono di un violino e di un pianoforte scintillanti, entrambi poi sostenuti dalla potenza evocativa degli archi.

La successiva Natural Blues, forse il brano più noto di Moby, abbraccia una nuova vitalità: entrambe le versioni sono esplosive, ma in modi diversi, perché se l’originale era simile a un mantra ipnotico, questa versione suona più gioiosa, grazie anche ai contributi vocali dei cantanti jazz Gregory Porter e Amythyst Kiah, che aggiungono stuzzicanti spezie gospel a un piatto già di per sé saporito.

Go, il primo successo datato 1992, è qui rivisitato in salsa afro-caraibica e indirizzato verso un mood quasi cinematografico, che sostituisce l’allegria dell’originale con un cupo epos contemplativo. Nonostante un viaggio lungo trent’anni per vestire nuovi abiti, la canzone non risente minimamente del tempo trascorso, anzi sembra freschissima, come fosse stata scritta ieri. E gioca ancora col cinema, Moby, riproponendo la splendida Extreme Ways, colonna sonora della serie dedicata a Jason Bourne. In questo caso, gli archi sintetici sono sostituiti da quelli veri e i beat sono scomparsi in favore di una chitarra acustica dal sapore quasi folk: una versione, questa, che surclassa decisamente l’originale.

La performance del pianista islandese Víkingur Ólafsson mette in risalto il mood sinfonico di God Moving Over The Face Of The Waters (da Everything Is Wrong del '95), canzone, questa, stilisticamente simile all'originale, anche se decisamente meno sintetica. Ed è splendida anche la rilettura in chiave jazz di We Are All Made Of Stars (da 18), trainata dal pianoforte e punteggiata dall’inusuale, per il jazz, suono del violino.

La vetta del disco, e suo cuore emotivo, è però la splendida The Lonely Night, cantata in duetto da Mark Lanegan (già presente nella versione originale) e Kris Kristofferson, il cui vocione grave conferisce al brano un’inedita profondità da far tremare le vene dei polsi. A sorpresa, compare anche una cover di Heroes di David Bowie: una versione lenta e struggente, cantata da Mindy Jones, che non sfigura di fronte all’originale.

Chi pensava a Reprise come un’operazione meramente commerciale, al pari di un disco di cover, si dovrà ricredere, perché se è vero che la maggior parte di queste canzoni sono assai note, è altrettanto vero che il lavoro di restauro da parte di Moby le ha trasformate in qualcosa di diverso, che suona intenso ed emozionante. Non un disco riempitivo, dunque, ma una nuova, imperdibile, tappa di una carriera straordinaria.


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