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REVIEWSLE RECENSIONI
26/09/2023
Alice Cooper
Road
Settantacinque primavere e non sentirle: Alice Cooper con "Road" celebra la propria carriera e regala una lectio magistralis di rock'n'roll.

Non voglio nemmeno pensare che ci sia al mondo qualcuno che non conosca Alice Cooper. Pertanto, è del tutto inutile snocciolare numeri e accennare a una storia musicale che ha lasciato segni indelebili, ispirando, e continuando a ispirare, schiere di musicisti. Basti sapere solo che il maestro degli incubi è tornato con l'album in studio numero ventinove (!), e alla veneranda età di settantacinque anni, non solo ha ancora molte cose da dire, ma le dice benissimo. Road non è, dunque, lo stanco lavoro, di chi ha superato abbondantemente gli anni della pensione, ma un disco che vede il rocker di Detroit rivivere nella sua forma migliore: grandi canzoni, backing band in palla, produzione impeccabile (Bob Ezrim) e, come sempre, testi traboccanti di ironia.

Quest'uomo non si ferma mai, e se sommi gli album solisti e gli album di puro divertimento pubblicati con il progetto parallelo degli Hollywood Vampires, parli di oltre sessant’anni di carriera, per la maggior parte passati in turnèe. E come sia in grado di sostenere questi ritmi, è un autentico mistero. Road, in tal senso, è un concept album dedicato alla strada, quella che ha percorso per milioni di chilometri, passando da un concerto all'altro, ma anche strada come metafora della vita, l'orizzonte davanti, perchè il futuro non è scritto, uno sguardo allo specchietto retrovisore, perchè il passato non si rinnega mai. E qui, nonostante le settantacinque primavere, Alice di vita ne mette tantissima, con un'esuberanza che lascia attoniti. E' lui, folle come sempre, e questa musica è la sua, folle come sempre. Un copione già scritto, forse. Ma la vera forza è quella di saperlo reinterpretare ogni volta col sorriso (ghigno, rectius) sulle labbra. Puro divertimento rock'n'roll: un po' giullare, un po' rocker, tanta elettricità, tanta ironia, il desiderio guascone di continuare a ballare alla faccia di chi l'ha già dato per morto.

Senza dubbio ci sono parecchi fan che vivono nel passato e pensano che Alice abbia raggiunto il suo apice negli anni ‘70/’80. Una considerazione, questa, solo in parte condivisibile, perché il Cooper di oggi è ancora in grado di produrre materiale di livello, e Road, in tal senso, ne è pieno.

L'album si apre con l’autobiografica "I'm Alice", una dichiarazione d’intenti e un’orgogliosa affermazione autocelebrativa, che ricorda la spavalderia degli anni '70: riff taglienti, retrogusto stradaiolo, testi attraversati da un filo di sfacciata ironia, e quella teatralità nella pausa parlata che evoca il fantasma di Vincent Price. Il modo perfetto per aprire un album che presenta davvero pochi punti deboli e inanella invece una serie di canzoni che sembrano costruite per funzionare meravigliosamente bene anche dal vivo, come, ad esempio, la successiva "Welcome To The Show", un brano figlio degli anni ’80, i cui coretti e il lavoro di chitarra sono vecchi di decenni e, ciò nonostante, in un batter d’occhio, mandano a fuoco le casse dello stereo.

Un uno due scalpitante, una partenza a razzo, per un viaggio grazie al quale Alice Cooper attraversa tutte le tappe della sua immensa carriera. "All Over The World", dedicata alla pletora inesausta di concerti tenuti nel corso della sua vita, aggiunge i fiati a un riff di chitarra decisamente seventies e a quella voce scorbutica a cui il tempo non ha tolto un briciolo di espressività, "Dead Don’t Dance" è puro metal con retrogusto Black Label Society trainato da un’infuocata linea di basso (Chuck Garric), "Go Away" è una sgommata rock’n’roll che richiama il Cooper più classico, mentre "White Line Frankenstein", con l’ospitata di Tom Morello alle sei corde, è un altro pezzo metal che esplode in un ritornello implacabile.

"Big Boots" è ancora puro rock’n’roll, spinto a tutta velocità dal basso di Garric e dal contrappunto del pianoforte verso un chorus uncinante, "Rules Of The Road", nello stesso modo, schizza rapidissima, mentre la pesante e cupa "The Big Goodbye" (grande assolo di Nita Strauss) guarda a un futuro, si spera il più lontano possibile, in cui le chitarre verranno appese al chiodo e tutto sarà finito. "Road Rats Forever" apre a bomba la parte finale dell’album, raggrumando in quattro minuti le caratteristiche della perfetta canzone rock: sezione ritmica impetuosa, riff feroce, assolo infuocato, contrappunto pianistico e ritornello fulminante. Decisamente uno degli high lights del disco.

"Baby Please Don’t Go" è un’ottima ballata, funziona bene, ma suona davvero poco Cooper, mentre la penultima "100 More Miles" assume connotati orrorifici e un tocco bluesy, prima di gonfiarsi di oscuri presagi e elettricità.

Il disco si chiude con la cover live di "Magic Blues" degli Who, introdotta da un riff che omaggia anche Jimi Hendrix, e non è un caso. Perché Alice Cooper vive e muore per lo spettacolo, perché Alice Cooper, riannodando in questo modo i fili della storia, che ha contribuito a scrivere con canzoni che sono diventate leggendarie, colloca sè stesso nell’Olimpo dei più grandi di sempre. Non con arroganza, ma con consapevolezza. La stessa, che rende Road l’ennesimo, importante, capitolo di una carriera selvaggia, indomita, e per certi versi, inarrivabile.