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REVIEWSLE RECENSIONI
Rough and Rowdy Ways
Bob Dylan
2020  (Sony Music)
IL DISCO DELLA SETTIMANA CLASSIC ROCK
7,5/10
all REVIEWS
06/07/2020
Bob Dylan
Rough and Rowdy Ways
A patto che non ci si faccia prendere da aspettative dettate più da soggezione/suggestione che da lucida oggettività e si tenga a freno l’insopportabile esaltazione da social network, "Rough And Rowdy Ways" è senz’altro tra i migliori album del Dylan versione “nuovo millennio”

Don't ask me nothin' about nothin'

I just might tell you the truth

(Outlaw Blues, 1965)

Bob Dylan non è uno che puoi scoprire un giorno per caso in radio o alla TV o su Spotify. Come ogni Artista, Bob Dylan te lo devi cercare, con sudore e sacrificio; lo devi seguire, con dedizione e pazienza infinita e, una volta che l’hai trovato, provare a stargli dietro, con la consapevolezza che lui sarà sempre due passi avanti, o di lato, o addirittura - perché no? - indietro, senza mai farsi davvero (com)prendere. Nell’ambito della popular music, Dylan ha ormai conquistato lo stesso posto che Shakespeare occupa nell’ambito della letteratura: per dirla con Harold Bloom, potrebbe essere il centro eternamente presente di un ipotetico canone occidentale da cui s’irradiano passato e futuro, summa maxima della tradizione americana, perfetta espressione del contemporaneo e profezia di un domani che ancora deve dispiegarsi pienamente. Non sono forse i cosiddetti, e tali ufficialmente titolati,“Basement Tapes”, per scegliere un solo esempio fra i tanti (e parliamo del ’67), la crème de la crème della tradizione statunitense e precursori, al contempo, di tutta la musica “americana” a venire? Al suo meglio, Dylan non ha rivali, soltanto pallidi imitatori; al suo peggio, Dylan diventa il più ridicolo imitatore di se stesso - ma rimarrà, ancora per molti decenni a venire, la pietra angolare – non l’unica, di certo la principale - con cui ogni bardo canterino che voglia trafficare con musica e parole deve fare i conti e, in qualche modo, misurarsi.

A patto che non ci si faccia prendere da aspettative dettate più da soggezione/suggestione che da lucida oggettività e si tenga a freno l’insopportabile esaltazione da social network (“capolavoroooo!” – “sono in estasi!” – “entusiasmante!” - “ma questo è Dio!” ecc.), Rough And Rowdy Ways è senz’altro tra i migliori album del Dylan versione “nuovo millennio”, quella cioè inaugurata nel 2001 con Love And Theft. Che, a conti fatti, consta di appena cinque titoli, se escludiamo i gingillamenti coveristici in cui Egli ama indulgere da sempre, con esiti che vanno dall’orripilante (Christmas In The Heart del 2009) all’inspiegabilmente toccante (Shadows In The Night, 2015); e dunque l’ultima manciata di inediti risale all’ottimo Tempest del 2012.

Un viaggio nel lato oscuro della nostra epoca (o di tutte le epoche), che suona ad un tempo familiare e misterioso. Come il miglior Dylan, come il peggior Dylan. Perché se da un lato, gettando uno sguardo panoramico ex-post su sessant’anni di carriera, è piuttosto facile individuare i brutti dischi (al volo: Knocked Out Loaded del 1986 e Down In The Groove di due anni successivo, Under the Red Sky del 1990) e i capolavori di Sua Maestà (troppi, cito solo quello che considero l’ultimo ascrivibile a tale categoria, vale a dire Time Out Of Mind del 1997), la faccenda si complica quando si tratta di collocare nella giusta prospettiva ogni ultima uscita. Aveva strappato frettolosi ululati orgasmici anche Tempest, otto anni fa, salvo poi subire un leggero ridimensionamento (però “Duquesne Whistle” la fischiettiamo ancora tutti, noi “dylaniati”).

 

What looks large from a distance,

Close up ain't never that big.

(Tight Connection To My Heart [Has Anybody Seen My Love], 1985)

Be’, diciamolo subito (subito?): Rough And Rowdy Ways è esattamente il Dylan che potevamo aspettarci in questo ridicolo, farsesco 2020, epitome dell’umana meschinità e pochezza (il 2020, non il disco), già a partire dal sound (del disco, non del 2020), una commistione tra le atmosfere smooth degli ultimi tre album di studio, in cui rivisitava i grandi standard americani e quelle, un po’ logore e fruste, inaugurate con Modern Times (2006), anche se qui la strumentazione è più discreta: evoca atmosfere e ambienti quasi onirici, si offre all’orecchio con sommessa eleganza;  certo, la bellezza di questa musica sta proprio nella polvere e nelle ragnatele, nel suo essere modernamente vintage, sempre uguale a se stessa, incontaminata ed eterna. Il punto è che l’eternità, in certi  momenti, può risultare terribilmente noiosa. Di “Murder Most Foul”, ad esempio, si è già detto di tutto e forse mai – vado a memoria - si sono versati sì tanti fiumi d’inchiostro in sì breve lasso di tempo; eppure, anche qui, dobbiamo essere onesti: si tratta di una “canzone” mortalmente noiosa. Ma si sa: cercare gratificazioni immediate ascoltando Dylan significa farsi male due volte. Nessuno è mai stato così abile e lesto nel cogliere quello che potremmo definire una sorta di “inconscio collettivo culturale” (stavo per scrivere Zeitgeist, ma non è un termine dylaniano) e i diciassette interminabili minuti di “Murder Most Foul” ne sono fulgido esempio.

 

May you have a strong foundation

When the winds of changes shift

(Forever Young, 1974)

“Per me non è nostalgica. Non penso a ‘Murder Most Foul’ come a una glorificazione del passato o una sorta di omaggio a un’età perduta,” ha dichiarato al New York Times. Sarà anche vero - e chi siamo noi per mettere in discussione quello che Dylan afferma in un’intervista che suona peraltro piuttosto sincera? Il fatto è che questa sensazione di “glorificazione del passato” serpeggia da sempre in quasi ogni sua opera e pare aver raggiunto l’acme proprio con Rough And Rowdy Ways: da qui si può solo guardare avanti, il passato è già stato tutto scandagliato. Tuttavia sarebbe un errore imperdonabile pensare che uno come Bob Dylan stia semplicemente mettendo in atto un banale teatrino nostalgico. La soluzione alle grottesche brutture della nostra epoca, pare suggerirci, è nella tradizione: non dobbiamo dimenticare o, peggio ancora, cancellare la Storia.  Qui ce lo dice esplicitamente, senza simbolismi o tortuosi percorsi. Il futuro è dietro di noi: non abbiamo bisogno di sempre più moderne tecnologie, ma di un Nuovo Umanesimo. Nel suo omaggiare la Tradizione e allo stesso tempo rompere con essa, Dylan è poeticamente scorretto, come lo furono, in modi diversi, Woody Guthrie, Little Richard e Johnny Cash. Come lo fu anche Shakespeare.

Il fantasma del citazionismo ulula nelle ossa del suo volto fin dall’iniziale acquarello di “I Contain Moltitudes”, che entrerà, a giusta ragione, nel canone dylaniano (e nel prossimo “Greatest Hits”) assieme, ci si augura, a “Mother Of Muses” che per chi scrive è forse la canzone più bella del Dylan versione New Millenium: chi, oggi, può permettersi di invocare le Muse (addirittura per nome: Calliope, in questo caso) senza cadere nel ridicolo? E soprattutto, quale Musa non esploderebbe in sghignazzi d’incontenibile ilarità se venisse invocata da qualsiasi cantautorucolo indie dei nostri giorni? “I’m travelin’ light and I’m a-slow coming home” è l’inquietante chiosa che richiama l’ultimo Leonard Cohen…

Detto che “False Prophet”, “Goodbye Jimmy Reed” e “Crossing The Rubicon” sono i soliti rauchi blues “dylaneschi”, magnificamente suonati, certo (basti leggere i nomi: Charlie Sexton, Bob Britt e Donnie Herron alle chitarre, Tony Garner al basso e Matt Chamberlain alla batteria, affiancati da ospiti tanto illustri quanto invisibili come Fiona Apple  e Blake Mills) ma forse non sempre e non tutti necessari; detto che l’ispiratissima “My Own Version Of You” assieme alla un po’ meno riuscita “I’ve Made Up My Mind to Give Myself To You” offrono prove vocali incredibilmente toccanti che riscattano la non brillantissima scrittura; detto che la magnifica “Black Rider” è il terzo capolavoro del disco, rimane da dire di “Key West (Philospher Pirate)”, brano che meriterebbe un piccolo saggio a sé, ma lo spazio (già ampiamente sforato) non ce lo consente. Si tratta, in sintesi, di una delle canzoni-chiave non solo di Rough And Rowdy Ways ma di tutta la carriera (da mettere accanto, per intenderci, a cose come “Desolation Row”, “Sad-Eyed Lady Of The Lowlands”, “Idiot Wind” o la più recente “Highlands”), una “Most Of The Time” che, trent’anni dopo, osserva la propria indicibile bellezza riflessa nel torbido stagno della nostra epoca malata, per poi alzare lo sguardo e fissare la linea dell’orizzonte. E sorridere, perché sa che là troverà la pace, la terra promessa…

 

I put down my robe, picked up my diploma

Took hold of my sweetheart and away we did drive

Straight for the hills, the black hills of Dakota

Sure was glad to get out of there alive

(Day Of The Locusts, 1970)

Mentre scrivo leggo che l’album è finito dritto al primo posto di tutte le classifiche che contano, posto che esistano classifiche che contino, e sono convinto che all’uomo di Duluth questa cosa stia regalando una soddisfazione infinitamente più grande di qualsiasi premio da sagra. Nobel compreso.


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