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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
20/08/2019
Perché siamo tutti attori nel mondo dei Social
Salmo, i Tool e l’anniversario di Woodstock
Giorni fa, come spesso accade, il post di qualcuno su Facebook ha aperto l’ennesima discussione riassumibile in maniera parziale come “vecchio vs nuovo”, che a questo giro ha interessato anche alcuni membri della redazione. Giustamente, siamo stati gentilmente invitati a smetterla di cazzeggiare e a trasformare tutto questo in alcuni pezzi degni di pubblicazione. Parto io, sperando di portare nuovi contributi ad un tema che ho già affrontato parecchie volte in questa sede.

L’oggetto del contendere, in quest’ultimo caso, era il seguente: da una parte ci si lamentava del fatto che una certa stagione della storia della musica, legata soprattutto agli anni ’60 e ’70 e a certi artisti simbolo, fosse assolutamente intoccabile. Elvis, Dylan, Beatles, Stones, Led Zeppelin: unici e irripetibili, santi da venerare, eroi a cui attribuire un culto immortale, sacrilegio o lesa maestà il parlarne male o anche solo il metterne in dubbio l’assoluta grandezza. Dall’altra parte, si denunciava invece un certo atteggiamento a metà tra lo spocchioso e il dissacrante, per cui chi ascolta quel tipo di rock iconico e dannatamente mainstream, quello che anche l’ascoltatore medio di Virgin Radio (cioè il più grande veicolo di ignoranza e luoghi comuni che esista in Italia a livello musicale) conosce a memoria, viene immancabilmente preso per il culo in quanto “commerciale”, “vecchio” o “retrogrado”.

Siamo alle solite. Chi ha ragione? Esiste un modo oggettivo, indolore ed infallibile per stabilire ciò che vale e ciò che non vale? O piuttosto: per stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio un canone di artisti e gruppi da inserire nel Pantheon delle divinità?

Non credo proprio. O meglio, evidentemente in certi casi sì ma pensare di elaborare dei criteri che valgano come teoremi è piuttosto illusorio: non dimentichiamoci che, in tutte le forme d’arte di tutte le epoche, sono stati formulati dei canoni che hanno sempre avuto a che fare con fattori storici, politici, sociali.

L’ho capito meglio settimana scorsa, osservando una ridicola polemica scoppiata all’interno del Rap Game (lo chiamano così) italiano. In breve, la vicenda è questa: Salmo pubblica una story su Instagram dove annuncia che sia il suo ultimo “Playlist”, sia il “Machete Mixtape Vol.4” di cui è stato tra gli ideatori e a cui ha preso parte come artista, erano entrambi giunti in vetta alle classifiche degli streaming. E ha di conseguenza dedotto che questo risultato li avesse premiati come i due migliori dischi Hip Pop usciti in Italia nel biennio 2018-19.

Da qui la risposta di Luché, un altro veterano della scena, che sempre a colpi di Stories replica che “più venduto” non significa automaticamente “migliore” e parte con una serie di critiche a Salmo che potrebbero riassumersi così: un tempo eri figo, oggi ti sei venduto al successo, sei diventato commerciale, i tuoi ultimi dischi vendono ma fanno cagare. Salmo a sua volta ha replicato, la cosa è andata avanti e io mi sono presto stancato di starla a seguire.

Ora, al di là dell’elevato tasso di ridicolaggine in polemiche di questo tipo (da quello che ho capito, il mondo del Rap funziona un po’ come funzionerebbe il rock se tutti i suoi membri fossero come i fratelli Gallagher), quello che mi ha davvero colpito è stato leggere i commenti sotto i post che riportavano la notizia. Praticamente ho assistito ad una versione in chiave Hip Hop delle nostre eterne discussioni: da una parte c’era chi dava ragione a Salmo, definendo Luché un rosicone, uno che avrebbe innescato la polemica perché da anni non se lo cagherebbe nessuno; dall’altra, chi diceva che Luché aveva sostanzialmente ragione perché Salmo da anni è bollito, il suo ultimo disco sarebbe musicalmente mediocre e il mixtape di Machete (che per la cronaca, è la sua Crew) una roba che definire di qualità sarebbe una bestemmia. E in molti citavano diversi nomi di artisti Rap molto più validi di lui, la maggior parte dei quali appartenenti ad un ambito per così dire più di nicchia.

Ecco, mi sono detto, funziona esattamente allo stesso modo anche qui. Perché io, chi mi conosce lo sa bene, Salmo lo apprezzo molto. Mi piacciono i suoi dischi, amo come scrive e penso che, soprattutto dal vivo, sia ad un altro livello rispetto alla media degli artisti del suo genere. Eppure, come mi giudicherebbero i ragazzini che lo considerano superato? Mi darebbero del vecchio rincoglionito? Mi perculerebbero sonoramente?

Allora due considerazioni: posto che sul ruolo di Salmo il pubblico è diviso ma i consensi mi paiono innegabili (i numeri sono alti e ai suoi concerti i giovani e giovanissimi sono tanti) mi pare interessante che col Rap, almeno in Italia, funzioni più o meno al rovescio: essendo un genere amato soprattutto dai giovani, è figo chi segue la novità, non lo è chi rimane ancorato ai nomi più famosi. Un po’ come succedeva ai tempi dell’Indie Rock, insomma.

Allo stesso tempo però, colpisce come questa battaglia abbia innegabili contenuti sociologici. Voglio dire, è anche e soprattutto una questione di immagine. Perché io ad esempio, non nego di avere spesso e volentieri utilizzato il mio apprezzamento per il Rap o per la scena It Pop, come arma per denigrare un certo tipo di ascoltatore, quello che è stato qui più volte definito “solone”; quello che, per intenderci, “La musica dei miei tempi era fighissima, quella di oggi fa schifo al cazzo”.

Però capite, è tutto relativo: perché il ragazzino di turno espertissimo in materia Hip Pop potrebbe venire da me oggi stesso ed accusarmi in questo modo: “Ti piace Salmo? Si vede che di Rap non capisci un cazzo!”.

E in fondo, non è forse vero che io anni fa mi ero messo a giocare un’altra battaglia? Ricordo bene che quando scoprii davvero i Beatles, io con un passato ultra decennale da metallaro alle spalle, mi atteggiavo ad intellettuale, recitando la parte di quello che “Sì, sono un gruppo scontato, sì, li conoscono tutti ma se li ascolti veramente capisci che sono dei geni, che sono attuali ancora adesso, ecc.”. Stessa cosa quando, più o meno nello stesso periodo, approfondivo entusiasta la discografia dei Led Zeppelin: “Grandissimi, il Metal ha qui alcune delle sue radici” e altre frasi fatte del genere.

Ora, non ho evidentemente cambiato idea, mi piacciono ancora i Beatles e mi piacciono ancora i Led Zeppelin ma, tirato dentro da altre questioni, infastidito da un certo atteggiamento di cui ho già detto, oggi mi sto muovendo su un altro terreno, preferisco parlare e scrivere di band giovani, al primo disco o addirittura al primo singolo, per far vedere come non sia del tutto sterile e riduttivo sostenere che solo nel passato ci fosse musica di qualità. E in questo lavoro, in questa sorta di battaglia culturale (è esagerato, lo so, però nel mio piccolissimo, alla fine si tratta di questo) esiste un po’ di autocompiacimento e un po’ di sana acredine nei confronti di alcune categorie di ascoltatori.

Per cui se mi esaspero di fronte all’ennesima rievocazione di Woodstock, se vado addirittura in bestia di fronte ai peana francamente un po’ esagerati che vengono tributati al nuovo Springsteen (io che a Springsteen ho dato ben più di un anno di stipendi, tra dischi e concerti, Dio mi è testimone), non è che non sia sincero, per carità, ma non si può non dire che non stia accettando un ruolo, che non mi stia cucendo addosso un’etichetta.

Quindi? Quindi niente, mi piaceva dirlo perché secondo me nell’epoca odierna il problema è soprattutto questo e credo sia intellettualmente onesto ammetterlo. Perché questa è un’epoca dedita al consumo iperattivo, un’epoca in cui bisogna fare una foto e postarla online per concretizzare un’esperienza, per affermare il fatto stesso di esserci, di esistere. Questa è l’epoca in cui, ancora più di prima, la stroncatura rapida e decisa, spesso praticata col tono arrogante di chi ne sa di più, è vista come uno strumento per garantirsi una presunta superiorità sulla massa che invece, poverina, continua a sostenere il contrario (e va in entrambe le direzioni, attenzione; da quelli che considerano sopravvalutato Bob Dylan a quelli che “I The National sono sempre stati una enorme rottura di coglioni!”).

La soluzione, come sempre, sarebbe quella di starsene zitti e ascoltare. Ascoltare tanto, a lungo, per giorni, settimane, mesi. Poi, ovviamente, se si vuole, dare un giudizio. Ma sempre nella consapevolezza che esistono esperienze, variabili e fattori da ogni tipo, che distruggono immancabilmente ogni pretesa di assolutizzare tale giudizio. Che non è un modo elegante per dire che tutto è relativo; più semplicemente, che sarebbe bello farsi sorprendere dalla bellezza, senza troppi condizionamenti di maschere ed etichette.

Speriamo che sempre più gente ci riesca e che succeda in fretta. Perché lo sapete, vero, che il 30 agosto uscirà il disco dei Tool? Avete già letto che conterrà sette canzoni per un totale di 80 minuti? Ecco, sarebbe bello, per una volta, non leggere recensioni a cazzo il giorno stesso o quello dopo, dove è evidente che il giornalista di turno avrà applicato sapientemente il proprio preconcetto (positivo o negativo che sia) alla musica in questione.

Perché io, quando penso ad un nuovo disco dei Tool (ma potrei dirlo anche di molte altre band) penso che se riuscirò a dire qualcosa dopo un mese e almeno quaranta ascolti, sarà già una cosa positiva.

Abbiamo voglia di tornare a ragionare così, oppure saremo destinati a soccombere alle logiche di questo mondo infame?


TAGS: Facebook | lucafranceschini | Salmo | Social | Tool | woodstock