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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
29/11/2021
Johnny Winter
Second Winter
Power Blues, questo è il termine più azzeccato, suggerito dall’epico bassista Tommy Shannon, per definire la musica di Johnny Winter: il blues suonato con la potenza e l’energia del rock ‘n’ roll. E Second Winter ne è il disco più rappresentativo. Rigodiamoci tutta la storia.

Nell’ottobre del ’69 esce un album che aggiunge un nuovo percorso alla strada del rock blues costruita dai Cream e Hendrix.

Second Winter si palesa subito originale per la scelta di essere un LP doppio, ma solamente con tre facciate. Infatti il lato D è lasciato volutamente “bianco”, senza tracce, come dichiarato nelle note del booklet dallo stesso Johnny: “Non potevamo onestamente darvi di più e non volevamo offrirvi di meno...Così qui trovate esattamente ciò che abbiamo fatto a Nashville: né di più né di meno.”

Le particolarità proseguono con l’iconica copertina azzurra, un collage di foto di Winter in primo piano, in azione sul palco, e soprattutto con l’incendiario materiale presente nella raccolta, capace di indirizzare verso sentieri sonori inesplorati; il virtuoso texano si fregerà non solo del fatto di venire istantaneamente accreditato fra i migliori interpreti blues di tutti i tempi, ma diventerà un riferimento vitale per il rinascimento e pure l’evoluzione del rock moderno.

Sono appena passati alcuni mesi da quel famoso concerto tenutosi al Fillmore East di New York City, a metà dicembre 1968, in cui uno dei più grandi chitarristi sulla Terra, Mike Bloomfield, invita Johnny Winter a suonare un pezzo con lui e Al Kooper. Le sue gesta finiranno trentacinque anni dopo – finalmente! – sul bellissimo The Lost Concert Tapes 12/13/68, ma soprattutto da quella serata otterrà un contratto discografico, notorietà e verranno velocemente pubblicati addirittura due dischi (in realtà uno dei quali sapientemente congegnato con demo di periodi precedenti) che riceveranno un’attenzione prodigiosa da parte di critica e pubblico.

“This cat can play”, sentenzia Bloomfield nel presentarlo in scena e aveva dannatamente ragione!

Bisogna sfruttare il momento, un nuovo guitar hero si sta ritagliando spazio nell’Olimpo delle sei corde, così nel luglio ’69 Tommy Shannon, il batterista “Uncle” John Turner, Johnny e suo fratello Edgar, pirotecnico sassofonista ed estroso tastierista, tornano ai CBS studios di Nashville, dove è nato il lavoro d’esordio, e si buttano a capofitto nella registrazione di un seguito.

Sono giorni elettrizzanti, illuminati anche dall’infuocata partecipazione a Woodstock, tra il 17 e il 18 agosto, un’esperienza che consolida maggiormente lo status del “ragazzo di Beaumont”, paragonabile, per capacità d’improvvisazione durante i live, a giganti come John Coltrane e Charlie Parker.

 

“Vi era così tanta gente. C’era fango dappertutto e nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto e quando. Un pazzesco, fantastico casino! Dovemmo prendere un elicottero per uscire da lì. “Guarda tutta questa fottutissima gente”, ecco che pensai quando sorvolammo la folla. Provai sensazioni incredibili, veramente qualcosa di diverso e unico…”

 

E poco dopo viene realizzato appunto Second Winter, che evidenzia la maestria dell’artista, qui ancora pure nelle vesti di produttore: l’impostazione vocale è notevolmente migliorata e gli assoli sono potenti e magnetici. Con quest’opera esce dagli schemi e asseconda passioni, sentimenti e aspirazioni, in un vorticoso viaggio che conduce a un’esplosione di suoni, con schegge di rock sperimentale in "Memory Pain", dall’inossidabile repertorio di Percy Mayfield, così come nelle autografe "Fast Life Rider", meravigliosa cavalcata di sette minuti, e "I’m Not Sure". Quest’ultima risulta davvero innovativa anche nella scelta della strumentazione, grazie all’utilizzo da parte di Johnny di un mandolino elettrico con il pick-up per basso e all’intuizione di far ripetere a Edgar il fraseggio con l’harpsichord.

"I Love Everybody" e "Hustled Down in Texas" ricalcano invece il blues più tradizionale, per non dimenticare le radici, però contengono tutta l’energia di un venticinquenne innamorato del genere, che ha sempre avuto come sogno nel cassetto quello di assomigliare un poco a Muddy Waters, Bobby Bland e B.B. King.

Si svolta poi verso traiettorie oscillanti nel jazz con la swingante "I Hate Everybody", fino a buttarsi nel più vivido rock ‘n’ roll, lanciandosi in riuscite cover incendiarie di "Johnny B. Goode", "Slippin’and Slidin’" e "Miss Ann"2.

I classici di Chuck Berry e Little Richard sono quindi nel cuore, reinventati con brio e vigore dall’irrefrenabile musicista, ma la vera chicca della raccolta permane la strabordante, sorprendente, tonitruante tempesta a ciel sereno raffigurata da "Highway 61 Revisited".

Niente sarà più come prima, dopo questo rifacimento del classico di Bob Dylan: chiedere a Derek Trucks per conferma. I fuochi d’artificio creati dalla slide di Winter resteranno in eterno un esempio da cercare di raggiungere per ogni chitarrista provetto e tale strabordante versione diventa subito una hit, trasmessa a più non posso –la cosa perdura tuttora- dalle radio a tema americane.

 

“Dylan è sempre stato uno dei miei preferiti. Non si può avere la mia età senza amarlo! "Highway 61" è una canzone che abbiamo suonato nei club parecchie volte, ma non avevo mai pensato di farla usando la slide. Ha funzionato bene.”

 

Un altro punto di forza dell’album è quello di aver costantemente inciso in presa diretta, o quasi; se il pezzo in questione non veniva terminato in due o tre sedute si passava al successivo, tutto ciò al fine di preservare la freschezza.

“Nel momento in cui ho cominciato a ingegnare questo progetto, ho subito identificato quale fosse la migliore tracklist, e si è tutto amalgamato magnificamente. Giusto il tempo di trovare il corretto arrangiamento e ogni brano veniva registrato all’istante.”

 

Il trionfo di Second Winter spianerà la strada alla carriera di Johnny, che affronterà i primi anni settanta e ogni evento on stage in gran spolvero. Seguiranno periodi difficili nei susseguenti decenni, in cui si distinguerà comunque come produttore di pietre miliari, ovviamente di matrice spiccatamente blues, per il Maestro Muddy Waters, e per lavori personali azzeccati come Guitar Slinger (1984), Serious Business (1985), Let Me In (1991) e I’m a Bluesman (2004), tutti e quattro nominati per un Grammy che si aggiudicherà, postumo, nel 2015 grazie a Step Back, uscito nel settembre 2014, due mesi dopo la morte improvvisa, avvenuta un paio di giorni seguenti l’ ultima performance al Cahors Blues Festival in Francia. Sebbene fortemente acciaccato, non aveva mai perso la predilezione per vivere on the road, offrendo ininterrottamente, con grande generosità, il suo contributo musicale.

 

“Ho sentito l’influenza di Johnny già da quando avevo diciassette o diciotto anni… Amo la sua musica con tutto il cuore.”

 

Joe Perry, eccentrico chitarrista degli Aerosmith è stato molto spesso piuttosto schivo nel parlare delle proprie influenze, ma per Winter ha sempre avuto parole di profondo affetto, riconoscendone la straordinaria importanza fin dai primi LP.

A dimostrazione di quanto fosse rilevante Second Winter, rimane epocale la versione speciale “Legacy Edition” del 2004 in cui, oltre alla pubblicazione di due inediti, perfetti per solleticare il palato fine dei fan, continuamente alla ricerca di documenti legati a quel frangente, si aggiunge un secondo dischetto contenente una formidabile esibizione alla Royal Albert Hall dell’aprile 1970, esemplare istantanea della potenza del chitarrista, magistralmente coadiuvato dal suo gruppo.

Furore e innovazione del Power Blues!  E proprio Tommy Shannon, a chiusura del cerchio, militerà, insieme a Chris Layton, nei Double Trouble di Stevie Ray Vaughan, artista speciale che tanto offrirà a questo genere, partendo dalla lezione di Johnny.