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REVIEWSLE RECENSIONI
04/12/2020
Brothers Osborne
Skeletons
Dopo due ottimi album in bilico tra Country e Pop/Rock, i Brothers Osborne pubblicano “Skeletons”, senza dubbio il loro lavoro migliore, nel quale dimostrano, nonostante la giovane età, di essere forniti di una personalità e una versatilità da veri e propri veterani.

Nonostante siano dei millennials, nel corso della loro carriera i Brothers Osborne hanno fatto tutto alla vecchia maniera. Dopo aver azzeccato il singolo spacca-classifica praticamente al primo colpo con “Stay a Little Longer”, incluso nell’album di debutto Pawn Shop, i due fratelli originari di Deale, Maryland, non si sono montati la testa. Come hanno fatto molti dei loro eroi, prima hanno girato gli Stati Uniti in lungo e in largo, suonando praticamente ovunque, e poi hanno registrato un secondo album, Port Saint Joe, grazie al quale hanno ampliato il loro sound, dimostrando di non saper maneggiare solo il Country e il Southern Rock, ma anche altri generi come il Pop e l’R&B. E i risultati non sono mancati, dato che negli ultimi anni i due si sono portati a casa diversi premi della Country Music Association, hanno conquistato un paio di nomination ai Grammy, hanno duettato con diverse stelle del firmamento Country (Maren Morris su tutti) e sono apparsi nel disco di tributo a Elton John Restoration (che, detto per inciso, è un gioiello) assieme a star di Nashville del calibro di Miranda Lambert, Little Big Town, Chris Stapleton, Kacey Musgraves e gloriosi veterani come Don Henley, Vince Gill, Dolly Parton, Emmylou Harris e Willie Nelson.

Insomma, arrivati al terzo disco in studio, Skeletons, i Brothers Osborne si possono considerare arrivati. Arrivati, sì, ma non sazi, dal momento che i due, affiancati ancora una volta da Jay Joyce – fedele compagno di lavoro di Eric Church, per il quale ha curato la produzione di quel capolavoro di moderno Outlaw Country che è Mr. Misunderstood, ma anche, ultimamente, di Miranda Lambert, come testimonia il recente Wildcard – hanno realizzato quello che è, senza alcun dubbio, l’album migliore della loro carriera. Eh già, perché nonostante il titolo tenda a suggerire un disco dalle tinte autunnali e acustiche, impostato tutto sulla riflessione e l’autoanalisi, Skeletons è invece un lavoro nel quale i Brothers Osborne dimostrano di sentirsi pienamente a loro agio nella propria pelle di cantori Country dalle spiccate influenze Rock, Disco e Pop. Una condizione evidenziata anche dal look, con T.J. che interpreta la parte del cantante rassicurante (ma dalla voce baritonale calda e intensa) mentre John è invece calato nel ruolo del chitarrista ribelle, figlio spirituale di Merle Haggard e Bob Seger.

È proprio grazie a questa fiducia in loro stessi – che gli anglosassoni chiamano confidence – che i fratelli Osborne riescono a far convivere sotto lo stesso tetto dodici pezzi dalle influenze più variegate senza che il disco risulti sfilacciato e schizofrenico. Anzi, ascolto dopo ascolto, grazie a una precisa visione artistica, Skeletons guadagna in profondità, dal momento che John e T.J. riescono a rendere tutto semplice ed estremamente personale, arrivando a bilanciare senza apparente fatica tutti gli elementi presenti nelle canzoni. Un approccio, questo, che riesce a pochi e che è proprio solo di artisti che abbiano percorso già un’abbondante fetta di strada, e non di un duo che ha alle spalle soltanto un paio di album.

Oltre che in fase di scrittura ed esecuzione, la maturità dei Brothers Osborne si manifesta anche e soprattutto grazie alla capacità di studiare una sequenza di canzoni sostanzialmente perfetta, con i due brani d’apertura, “Lighten Up” e “All Night”, che indicano subito la direzione e il valore dell’album. La prima, con chiare influenze Funky, inizia con una chitarra slide e si conclude con un assolo di chitarra da Arena Rock, mentre la seconda sembra pesa di peso da Eliminator o Afterburner degli ZZ Top. Ma anche la successiva “All the Good Ones” è irresistibile, con un ritornello che potrebbe essere uscito dalla penna della Shania Twain di Come on Over. Ma non di solo Crossover Country vivono i Brothers Osborne, come dimostrano invece le più tradizionali “I’m Not for Everyone” e “Back on the Bottle”, la ballata Pop Rock “High Note” e l’omaggio a Merle Haggard della strumentale “Muskrat Greene”, che prosegue il suo galoppo nella successiva “Dead Man’s Curve”.

Assistiti in fase di scrittura – come è tradizione a Nashville – da un nutrito cast di collaboratori che va da Daniel Tashian e Ian Fitchuk (Kacey Musgraves), passando per Natalie Hemby (Miranda Lambert e Lady Gaga, vedi “Always Remember Us This Way” da A Star Is Born), e affiancati in studio dai musicisti che li accompagnano abitualmente in tournée – Adam Box (batteria), Jason Graumlich (chitarra), Billy Justineau (tastiere), Pete Sternberg (basso) – i Brothers Osborne con Skeletons hanno pubblicato un album allo stesso tempo vario e bilanciato, con il quale riescono a far risaltare al meglio tutte le loro caratteristiche. È vero, non c’è niente di incredibilmente originale nei 39 minuti che compongono il disco, e forse i talebani del Country non ameranno particolarmente un lavoro che flirta senza vergogna con il Rock e il Pop, incamerandone pregi e difetti. Ma è anche vero che poche band come i Brothers Osborne riescono muoversi in tutti i territori di quello che si può definire Americana rimanendo sempre a fuoco ed estremamente riconoscibili. Generalmente, dischi come Skeletons li realizzano quelli che Oltreoceano vengono definiti old pros, veterani che conoscono tutti i trucchi del mestiere per consegnare un lavoro ben fatto senza apparente fatica. A poco più di trentacinque anni e con meno di due lustri di carriera alle spalle, quasi fossero dei predestinati, i Brothers Osborne rientrano di diritto nella categoria, regalando all’ascoltatore un disco che parla a tutti ma appartiene unicamente a loro stessi.


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