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REVIEWSLE RECENSIONI
Skinty Fia
Fontaines DC
2022  (Partisan Records)
IL DISCO DELLA SETTIMANA POST-PUNK/NEW WAVE
9/10
all REVIEWS
25/04/2022
Fontaines DC
Skinty Fia
Skinty Fia, va da sé già candidato a disco dell’anno, rappresenta, almeno per il momento, l’apice compositivo dei Fontaines DC, una band con un destino di grandezza cucito addosso, destinata a trascendere le sorti future della sua scena di riferimento.

Non è mai stato troppo sottolineato ma “DC” sta per “Dublin City”. La band non ha mai fatto mistero delle sue origini irlandesi, parte della sua identità tematica e concettuale, oltre che musicale, è qui. Adesso che si sono trasferiti a Londra e che guardano tutto questo dall’esterno, è come se la loro Irishness acquistasse nuove forme ed intenzioni: andarsene dall’Irlanda per recuperarne in qualche modo il senso di appartenenza e poterla amare in modo rinnovato, con occhi depurati dai preconcetti. Tutto il contrario, a quanto pare, di uno dei loro riferimenti letterari principali, quel James Joyce evocato in “Bloomsday”, che se ne fuggì giovane da una Dublino ancora provinciale e intrisa di cattolicesimo bigotto per poter trovare la propria autentica voce poetica.

La lontananza dalla patria ha probabilmente innescato nei Fontaines DC la scintilla per realizzare il loro disco più politico, manifesto d’amore ma anche grido di rabbia. A partire dal recupero del gaelico nel titolo: Skinty Fia (“La dannazione del cervo”) è un’espressione gergale a metà tra l’imprecazione e lo scongiuro, che il batterista Tom Coll sentiva spesso ripetere dalla sua zia paterna (negli ultimi decenni, con la progressiva integrazione dell’Irlanda all’interno del sistema britannico, il gaelico è progressivamente sparito, oggi è di fatto parlato solo dalle generazioni più anziane, laddove, soprattutto nel periodo della lotta per l’indipendenza, veicolava un forte sentimento patriottico), facendo del cervo a cui si fa riferimento il centro della splendida e vagamente inquietante copertina; poi c’è il già citato riferimento a Joyce (il Bloomsday ricorre ogni 16 giugno ed è un momento di celebrazione dell’autore irlandese, Leopold Bloom è il protagonista di Ulisse, la sua opera più famosa), la storia raccontata nell’opener “In ár gCroìthe go deo” (un’espressione che significa all’incirca “Per sempre nei nostri cuori") di una donna a cui sarebbe stato impedito dalle autorità inglesi di mettere tale scritta sulla propria lapide. Ne è scaturita una battaglia legale di qualche anno che è stata vinta dai famigliari nel 2018. O ancora, il secondo singolo “I Love You”, che a dispetto del titolo è incentrata sui controversi fatti di Tuam, sede di una casa per ragazze madri gestita dalle suore del Buon Soccorso, dove nel 2014 fu ritrovata una fossa comune contenente resti di diverse centinaia di bambini; è una vicenda non ancora del tutto chiarita, anche se quelle che erano probabilmente le condizioni di questi istituti era già stato ritratto dal regista Peter Mullan in Magdalene, il suo film del 2002.

Irlanda o meno, Grian Chatten si conferma ancora una volta un paroliere attento e abile, per cui i testi sono una componente fondamentale della proposta del gruppo.

Per quanto riguarda gli aspetti musicali la riflessione è piuttosto semplice: sin dalle prime interviste questi cinque ragazzi sono andati ribadendo il loro fastidio per la facilità con cui gli si appiccicava addosso l’etichetta “Post Punk”, legandoli automaticamente a quella nuova ondata di band, per lo più anglosassoni, che ha riportato in auge le chitarre ed una certa irruenza tipica del periodo ‘79-84 o giù di lì. Era un accostamento che poteva valere ai tempi di Dogrel, nonostante la distanza tra loro e (per fare dei nomi a caso) gli Idles o i connazionali Girl Band fosse già abissale. Dopo Skinty Fia inserire nuovamente i Fontaines DC nel calderone sarebbe assolutamente ridicolo. Se c’è una cosa che queste dieci nuove canzoni mettono in chiaro è che Fall, Joy Division, Echo & The Bunnymen, Psychedelic Furs e chi più ne ha più ne metta, costituiscono le radici, dei semplici fisiologici punti di partenza su cui nel corso degli anni è stata costruita un’identità individuale ben marcata. Oggi i Fontaines DC hanno un loro suono, una loro impronta ben riconoscibile, bastano poche note per capire a chi siamo di fronte. E questo, arrivati al terzo disco, dice una cosa molto importante. Questo revival del Post Punk o come diavolo vogliamo chiamarlo, funzionerà esattamente come tutti gli altri trend che abbiamo visto nel passato: si esaurirà nel giro di pochi anni e rimarranno solo quei nomi che, pur partendo da un’appartenenza comune, saranno stati in grado di sviluppare un proprio discorso, di trovare una voce unica.

Lo ha prodotto ancora una volta Dan Carey, che oltre ai loro ha realizzato quasi la metà dei lavori per cui gli addetti ai lavori sono impazziti negli ultimi anni. Niente immobilismo e niente appiattimento, però. Carey è bravissimo a mettersi al servizio del gruppo e il gruppo, dal canto suo, è bravissimo a far capire quello che vuole, ragion per cui Skinty Fia suona benissimo senza per forza risultare già sentito.

È un disco fortemente incentrato sulla voce: ci sono tantissime parole, il cantato di Grian Chatten in più punti flirta quasi con l’Hip Hop e in generale è evidente come il timbro e il magnetismo del singer siano tra i fattori principali che rendono questa band superiore alle altre. Poi c’è la sezione ritmica, essenziale e devastante al tempo stesso, in particolare il drumming di Tim Coll è fondamentale per dare personalità ai singoli brani.

Incredibile anche la cura dei dettagli, mai così a fuoco come in questo caso: se le canzoni sono tutto sommato lineari nella costruzione, è poi la complessità degli arrangiamenti a renderle preziose, in particolare il modo con cui le chitarre di Carlos O’Connell e Conor Curley, mai invadenti, si intrecciano e tracciano pennellate discrete, al modo in cui stanno a tratti volutamente sullo sfondo ma ricamano sprazzi di enorme intensità.

Poi si potrebbe affondare nei singoli episodi e scoprire che non ce n’è uno superfluo, che a suo modo sono tutti dei piccoli capolavori. A cominciare dal già citato opener, con le voci di Conor Deegan e Conor Curley che armonizzano sulle parole del titolo, Grian che canta le sue strofe, il basso di Conor Deegan III che si staglia imperioso e che man mano si va avanti si riempie di distorsione; la batteria che entra nella seconda parte è poi l’apoteosi della bellezza, racchiude in pochi istanti la vera essenza di questa band. Un brano semplicissimo nel quale tuttavia succedono mille cose, una tensione palpabile mantenuta dall’inizio alla fine: se volete sapere in quattro minuti chi siano i Fontaines DC non avete bisogno d’altro.

Il mood generale non si discosta molto da quello di A Hero’s Death, da questo punto di vista sia “Big Shot” sia “How Cold Love Is”, entrambe lente e cupe, sono in ideale continuità con quel lavoro, la prima con un fraseggio di chitarra meraviglioso in sottofondo, la seconda sostenuta da uno splendido pattern di batteria.

È evidente come brani a la “Hurricane Laughter” non siano più nelle corde di un act che preferisce la riflessione all’impatto e che punta molto di più sulle atmosfere e sulle suggestioni melodiche piuttosto che sull’impatto terremotante delle ritmiche.

In un lavoro nel complesso a tinte scure, che veicola un senso generale di inquietudine, spiccano però il primo singolo “Jackie Down the Line”, l’apertura melodica e le linee vocali che costituiscono neanche troppo velati richiami agli Smiths, e “Roman Holiday”, costruita sulla chitarra acustica e sui fraseggi solisti, anche questa smithsiana nelle suggestioni, in generale più accomodante.

Particolare interludio è invece costituito da “The Couple Across the Way”, sorta di ballata Folk per voce e fisarmonica, concepita quando ancora pensavano di realizzare un doppio album, con la seconda metà composta unicamente da brani, originali e non, ispirati alla tradizione irlandese. Alla fine hanno optato per un disco singolo ma questa l’hanno tenuta, dopotutto già nei lavori precedenti c’erano “Dublin City Sky” e “Oh Such a Spring” a tenere viva la connessione emotiva con la madre patria. Sul brano in questione, Grian ha raccontato di averlo scritto dopo aver ascoltato un litigio di una coppia di vicini di casa e di essersi conseguentemente domandato se il rapporto con la sua compagna avrebbe resistito alla prova del tempo.

Ci sono però due episodi in particolare su cui Skinty Fia si regge e che possono essere utilizzati come ulteriore paradigma della grandezza di questa band: il primo è la title track, dominata da un senso di disturbo psicologico costante, accentuata da un testo che esprime stati d’animo paranoici e ossessivi, un Grian Chatten monumentale nell’interpretazione, una band che lo sostiene splendidamente evocando paesaggi di densa malinconia. E poi c’è “I Love You”, che ascoltiamo ormai da alcuni mesi ma che nel contesto del disco assume un valore nuovo. Del testo abbiamo già detto, le atmosfere che evoca sono bene o male in continuità con esso, anche qui la prova vocale è pazzesca e da sola tiene su tutto il pezzo. Un episodio solo all’apparenza più aperto del precedente, perché proseguendo nell’ascolto il senso di disagio diviene decisamente palpabile.

In chiusura c’è “Nabokov”, nessuna apparente connessione tra titolo e testo (è stato buttato giù in studio all’ultimo momento, il titolo era stato pensato da Curley, che ha scritto la musica), forse il punto del disco in cui le chitarre emergono di più, a creare, seppure in modo discreto, quel muro di suono che ormai manca da tempo nei pezzi di questa band.

Skinty Fia, va da sé già candidato a disco dell’anno, rappresenta, almeno per il momento, l’apice compositivo dei Fontaines DC, una band con un destino di grandezza cucito addosso, destinata a trascendere le sorti future della sua scena di riferimento. Se sarà davvero così o se finiranno come degli Editors qualunque è presto per dirlo, ma che arrivati al terzo album stiano ancora crescendo a livello esponenziale è sicuramente un buon segno.