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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
08/06/2020
Strangelove
Strangelove
Il capitolo finale della breve carriera degli Strangelove tra chitarre sferraglianti, melodie uncinanti, citazioni e brit pop

Originari di Bristol, capitanati dal cantante Patrick Duff e dal chitarrista Alex Lee (The Blue Airplanes, Suede), gli Strangelove hanno vissuto una breve stagione nel cuore degli anni '90. Un storia durata più o meno un lustro, punteggiata da tre album in studio e un pugno di Ep, nobilitata da un picco di notorietà raggiunto a metà del decennio e resa complicata dalle condizioni di salute di Duff, alle prese con una forte dipendenza da alcol e droghe e una depressione tanto invasiva da spingerlo alle soglie del suicidio.

La band, formatasi nel 1991, esordirà l’anno successivo con un Ep (Visionary), darà alle stampe il primo full lenght solo nel 1994 (Time For The Rest Of Your Life) e uscirà di scena, nel 1997, dando alle stampe questo omonimo e bellissimo disco, tra i più sottovalutati e dimenticati del decennio.

Strangelove sfodera un suono decisamente più rock e più duro rispetto ai lavori precedenti: le chitarre, spesso roboanti, sono il tratto distintivo delle undici canzoni in scaletta, a cui però non mancano melodie irresistibili e di facilissima presa. L’abilità del quintetto sta proprio nella capacità di bilanciare potenza e armonia, su uno spartito che coagula con intelligenza il suono del decennio: non solo chitarre, quindi, ma anche un pizzico di malinconia che ricorda i coevi Radiohead (che qualche mese prima hanno pubblicato il capolavoro Ok Computer), citazioni classiche rilette col gusto dell’epoca (Beatles, Kinks, etc) e, ovviamente, i piedi ben saldi nel brit pop, che in quegli anni fa sfracelli grazie band quotatissime come Oasis, Blur e  Verve.

Che gli Strangelove abbiano irrobustito il loro sound lo si capisce fin dalla tripletta che apre il disco: Superstar, una sorta di Paranoid Android, capace di fondere dolcezza acustica e furore chitarristico, lo sferragliare convulso fra scorie grunge della violenta Freak, e il tiro diretto, chitarre lancia in resta, di Someday Soon. Tre canzoni che sottolineano una cifra stilistica meno introspettiva e un approccio decisamente più graffiante rispetto ai lavori passati (Superstar e Freak furono registrate in studio dal vivo senza alcun ritocco in fase di post produzione).

Le frecce all’arco della band, però, sono molte di più. L’innesto del tastierista Nick Powell, come sesto membro della band, vivacizza ulteriormente il suono arricchendolo di sfumature e colori, come avviene, ad esempio, nella cangiante e divertentissima The Runaway Brothers, trainata con esuberante allegrezza da uno stupefacente drive di piano.

Un songwriting brillante e incisivo, quello di Duff e Lee, da cui nascono piccole gemme che avrebbero meritato ben altra fortuna: la melodrammatica Wellington Road, intensa ballata dagli accenti brit pop, la clamorosa Another Night In, pastiche che cita smaccatamente i Fab Four, ma è capace di sviluppare il tema con intuizioni fuori dagli schemi (l’intreccio tra piano e una chitarra in odore di acidi, il ruffiano intermezzo pianistico, la coda strumentale dal sapore quasi progressive), la contagiosa esuberanza pop in salsa d’archi di The Greatest Show On The Earth (quel ritornello in falsetto che ti inchioda fin dal primo ascolto), il saliscendi psichedelico di Little Queenie (la cui melodia è contornata da irresistibili coretti) e la chiosa di Jennifer’s Song, ballata acustica in cui il timbro vocale di Duff evoca addirittura Morrissey.

La copertina malinconicissima, quella porta chiusa e la foto di una panchina vuota in uno scenario autunnale, ammicca chiaramente alla fine dell’avventura. Gli Strangelove non esistono più. Duff formerà i Moon, altra meteora dalla vita brevissima, e in seguito inizierà una carriera solista senza particolari picchi, mentre Alex Lee alternerà la carriera di produttore a quella di turnista (Goldfrapp, Placebo, etc.).


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