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REVIEWSLE RECENSIONI
07/11/2022
Dry Cleaning
Stumpwork
Un disco niente affatto semplice, ma una band che si è finalmente lasciata alle spalle le etichette per incamminarsi verso una direzione finalmente personale e non derivativa. Queste sono le band che hanno ragione di esistere, in questi nostri tempi affollati.

Devo ammettere di non aver rivolto chissà quali attenzioni al debutto dei Dry Cleaning: l’etichetta prestigiosa per cui è uscito (la 4AD), l’ancora più prestigioso produttore che li ha seguiti in studio (John Parish) non mi avevano comunque salvato da un ascolto distratto e piuttosto superficiale. Era un periodo (peraltro non ancora terminato anche se forse un po’ in discesa) in cui qualunque cosa provenisse dall’Inghilterra e avesse delle chitarre aggressive e articolate veniva accostato al Post Punk - un periodo in cui, ad aggravare le cose, qualunque linea vocale che fosse vicina allo spoken word si beccava puntuale il suo bel paragone con Mark E. Smith. - e francamente mi ero rotto le scatole, nonostante sia il primo a riconoscere la quantità di band interessanti e di valore uscite da tale calderone.

I Dry Cleaning, manco a farlo apposta, sono stati infilati lì dentro con una facilità disarmante, anche perché avevano già publicato due EP ed erano già un nome particolarmente chiacchierato tra gli addetti ai lavori (quelli veri, ovviamente). New Long Leg ad un primo ascolto mi era sembrato un bel disco ma non tale da generare tutto questo entusiasmo.

Ho cambiato idea quando li ho visti dal vivo: dapprima al TOdays del 2021, in un contesto open air, penalizzato dalle fastidiose misure anti Covid allora in vigore; successivamente a Milano, nello spazio chiuso e raccolto del Circolo Magnolia.

Che band, ragazzi! Osservandoli in azione si capisce di quale maturità compositiva siano in possesso, e di come tale maturità vada di pari basso con una bravura strumentale dei singoli ed un’alchimia di gruppo davvero inusuale per dei musicisti così giovani.

 

Stumpwork, quel sophomore così difficile secondo la vulgata, arriva meno di due anni dopo dal predecessore e conferma la bontà di un progetto che non solo si è meritato tutti gli altissimi posti guadagnati nelle classifiche di fine anno ma che, se i suoi interpreti sapranno giocarsela con intelligenza, potrebbe regalare davvero sorprese a non finire.

Studio di registrazione e produttore sono sempre gli stessi, quindi da una parte i Rockfield a Mounmouth, nel Galles, dall’altra John Parish, a dirigere un quintetto che che ha confermato in toto la propria formazione.

La voce di Florence Welch è ancora una volta al centro del progetto: ci sono punti in cui accenna qualche nota (“Don’t Press Me”, “Gary Ashby”) ma in generale il suo rimane uno spoken word dal tono casuale e vagamente straniante, in apparenza slegato da ciò che accade sul lato strumentale del pezzo (le parole da lei declamate non vanno praticamente mai a tempo con la musica) ma essenziale per modellare l’essenza di questa band. Un’essenza che noi italiani probabilmente non riusciremo mai a comprendere appieno (i suoi testi surreali procedono per accostamento di immagini e risultano ostici anche per chi capisse bene l’inglese) ma che in fin dei conti è ciò che rende i Dry Cleaning una band diversa dalle altre. La loro figura centrale è una ragazza che non aveva mai pensato di intraprendere una carriera musicale, che si è trovata dietro al microfono per puro caso e che, siccome funzionava, ha deciso di rimanerci, sfruttando però un talento che ha più a che fare col mestiere di scrittore che con quello di cantante. Vengono in mente i nostri Massimo Volume, se non fosse che Emidio Clementi nel tempo ha imparato a suonare e oggi le sue parole hanno acquisito una consapevolezza ritmica che le rende un tutt’uno con la componenente strumentale delle canzoni.

L’altro artefice della grandezza dei Dry Cleaning è il chitarrista Tom Dowse. Ne ho già scritto nel report del loro live milanese ma mi sembra doveroso ribadirlo in questa sede: la sua fantasia e la sua versatilità sono ciò rendono queste canzoni così entusiasmanti, paesaggi sonori che mutano in continuazione, melodie a volte appena accennate, altre rese colonna portante della canzone, stratificazioni complesse ma in cui ogni dettaglio si incastra al punto giusto. Il risultato è che ogni canzone di Stumpwork è un mondo a sé, seguire con attenzione ciò che succede durante il brano è esercizio fin troppo stimolante e impegnativo anche senza comprendere i racconti della Welch. Con questo non voglio dire che questi brani avrebbero potuto anche essere strumentali (i Dry Cleaning sono a tutti gli effetti il prodotto di questa unione così particolare tra musica e parole), bensì che non occorre per forza capire al volo i testi per godersi appieno il disco.

 

Rispetto a New Long Leg, poi, ci sono tutta una serie di elementi di novità. Innanzitutto un’impostazione di fondo più rarefatta e meno aggressiva, evidente già dall’opener “Anna Calls From the Arctic”, più synth che chitarre, e un sassofono a far capolino tra le tessiture ritmiche, creando sensazioni fino a quel momento inedite. È uno schema ripetuto anche altrove (tra le altre, la title track), e contribuisce a rendere questo lavoro più versatile del precedente, pur essendoci comunque brani come “Kwenchy Kups” o “Driver’s Story” che rispecchiano di più il marchio di fabbrica del quintetto.

Colpisce anche la presenza di due tracce più lunghe, “No Decent Shoes for Rain” e “Liberty Log”, più varie nel loro sviluppo (bisogna comunque fare un plauso allo splendido lavoro ritmico di Lewis Maynard e Nick Buxton, rispettivamente bassista e batterista), con suggestioni che richiamano in parte il Post Rock e che sembrano poter mostrare scampoli di una possibile direzione futura.

Un disco niente affatto semplice, ma una band che si è finalmente lasciata alle spalle le etichette per incamminarsi verso una direzione finalmente personale e non derivativa. Queste sono le band che hanno ragione di esistere, in questi nostri tempi affollati.