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REVIEWSLE RECENSIONI
05/03/2020
Non Voglio Che Clara
Superspleen
Siamo talmente tanto bombardati dalle informazioni che tendiamo a dimenticarci della vecchia abitudine per cui le band dovrebbero pubblicare dei dischi solo quando si ha davvero qualcosa da dire. I Non voglio che Clara sono stati fermi sei anni, tanti ne sono passati da “L’amore finché dura”, che è del 2014.

Da allora c’è stato il tour, la ristampa in vinile di “Hotel Tivoli”, un altro tour e poi il silenzio, per coltivare le idee, scrivere nuovo materiale e decidere come confezionarlo per presentarlo al mondo. Le cose nel frattempo sono cambiate, non solo nella fruizione della musica ma anche nei gusti del momento, al punto che un gruppo come il loro rischia di trovarsi fuori tempo massimo.

Ma se è vero che è proprio dell’arte non tener conto delle mode e non fare discorsi utilitaristici, se davvero ci si muove per un’autenticità di fondo e per un’esigenza di verità di sé stessi, allora Fabio De Min, Marcello Batelli, Igor De Paoli e Martino Cuman sono tornati al momento giusto. Che è poi quello in cui erano pronti, senza mettere in campo troppe dietrologie.

E a questo punto non stupisce che abbiano fatto il disco perfetto per questi nostri tempi. “Superspleen Vol.1” (ci hanno detto che forse uscirà un volume 2 ma che non è per quello che l’hanno chiamato così) si apre con la title track, già anticipata in qualità di singolo, che cita Baudelaire e Whitman mentre svolge una meditazione sulle promesse della giovinezza e si muove in bilico tra passato e presente: cosa siamo diventati? La vita che abbiamo vissuto ci ha davvero soddisfatti? “Ne valeva la pena?”, si chiedono. Indubbiamente sì ma è importante non soffermarsi su quello che si era e partire da quel che si è adesso. “Ubicumque sum, ego meus sum” cantano in “Liquirizia” citando una celebre epistola di Seneca: una metafora per dire che, cambiano loro, cambiano i tempi, ma l’identità di questa band rimane ben salda. Non solo: si potrebbe forse dire che i Non voglio che Clara abbiano proprio nel cambiamento trovato la loro dimensione migliore. “Superspleen” è il loro lavoro più accessibile, quello che  flirta maggiormente col Pop e che abbandona la veste Lo Fi che ne aveva sempre caratterizzato, aprendo le melodie e creando un’atmosfera più ariosa, grazie anche all’utilizzo dei fiati, mai impiegati così tanto in precedenza.

C’è meno cupezza, meno ripiegamento su se stessi a livello sonoro, meno tristezza autocompiaciuta; si avverte di essere di fronte ad un lavoro maturo, da parte di un collettivo che non è mai stato così conscio dei propri mezzi e che, molto banalmente, ha scritto e pubblicato esattamente quelle canzoni che ha avuto voglia di scrivere, che sono sgorgate fuori in maniera naturale. Non è un caso se questo è l’album meno cantautorale del quartetto, quello meno dipendente dalla scrittura di De Min, quello più da band. Basterebbe sentire “Liquirizia”, con i suoi incastri ritmici oppure “Epica omerica”, con le sue reminiscenze Funk e la sua coda affascinante, dove sale in cattedra il Synth.

Ma è anche il disco dove Fabio canta meglio, utilizzando alla perfezione tutte le possibilità offerte dalla sua voce, che è anche ben sistemata in primo piano, in un inedito missaggio “all’italiana”.

Ed è il disco dove i bellunesi non si vergognano a giocare con la contemporaneità, inserendo suggestioni al confine con l’It Pop (vedi la cassa dritta in “Croazia” e quella sua ammiccante spruzzata di elettronica) e snellendo la struttura e l’impatto delle loro classiche composizioni malinconiche (la magnifica intensità di “Ex Factor” e “San Lorenzo”, altre due canzoni che, peraltro, giocano col tema del confronto tra passato e presente).

E, per finire, è il disco dove non hanno paura di aprirsi alle suggestioni da canzone popolare, dove il saccheggio della tradizione italiana non va solo dalle parti di Tenco e affini e dove affiora un’allegria leggera ed una qualche inedita ironia, sia quella caustica de “Il miracolo” (una delle più belle canzoni della loro storia?) sia quella giocosa de “La Streisand”, che ricorda anche certe atmosfere jazzate che erano tipiche, tra gli altri, del Guccini di “Quello che non”. Nonostante gli episodi citati, è probabilmente “Marginalia” ad incarnare al meglio questa volontà del gruppo di esplorare nuovi mondi: canzone d’amore delicata, divertente ma allo stesso tempo tremendamente seria, un pezzo da autentici veterani della scrittura.

E si chiude con “Altrove_Peugeot”, che sono due frammenti di canzone uniti quasi per caso a formare un episodio solo (non si tratta di una nuova “A Day in the Life”, ci hanno tenuto a precisare) e che, senza volerlo, rappresenta alla perfezione la doppia anima di questo album: la prima, più aperta e Synth Pop e la seconda, da intensa ballata acustica.

Ditemelo voi come si fa, a tornare con questo carico di autorevolezza, a non scomporsi minimamente di fronte al tempo che è passato, a non preoccuparsi della concorrenza dei nuovi fenomeni dello Streaming e a firmare quello che, lo dico senza la minima esitazione, rappresenta il disco più bello della loro carriera.

Sono tempi strani questi ma finché continuerà ad uscire musica così, non vedo perché ci si dovrebbe preoccupare.


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