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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
13/11/2023
Live Report
Swans, 11/11/2023, Conservatorio Giuseppe Verdi, Milano
Siamo andati a sentire gli Swans al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e il risultato è stato quello di ogni concerto degli Swans: pura devastazione sonora ma allo stesso tempo elevazione mistica, garantita dalla pulsazione incessante del drone.

Gli Swans negli ultimi anni li avevo inseguiti spesso ma senza successo: le volte che sono passati dal Primavera Sound (l’ultima quest’anno) c’erano sempre cose più urgenti da vedere; in Italia ci sono venuti sempre ma ogni volta o ero via o ero impossibilitato causa distanza (vedi l’ultima data a Bologna in mezzo alla settimana, decisamente impraticabile). Aggiungiamoci la pandemia, che ha ovviamente cancellato il concerto milanese previsto in Santeria nel 2020, e si completerà un quadro desolante: in pratica il mio ultimo concerto loro è stato nel 2016 e cominciavano a mancarmi parecchio.

Nel frattempo in casa Swans di cose ne sono successe parecchie: c’è stato l’ennesimo rinnovo della formazione da parte di Michael Gira (anche se questa volta solo parziale) e a Leaving Meaning, uscito nel 2019 e mai di fatto portato in tour, si è aggiunto un altro lavoro, The Beggar, anche questo doppio (tutti gli ultimi cinque dischi seguono questo formato), anche questo angosciante e claustrofobico, oltre che magnificamente ispirato (qui la recensione).

 

Ancora una volta la location scelta è un teatro/sala da concerto, in questo caso la “Verdi” del Conservatorio di Milano: potrebbe sembrare una soluzione paradossale ma credo che al gruppo piaccia creare questo tipo di contrasti, oltre a rimarcare il fatto che, per quanto malsana e rumorista, la loro musica abbia in sé una componente “classica” ed orchestrale che venue come questa fanno emergere con maggiore facilità.

La proposta è comunque colta a sufficienza, la dose avanguardista ben presente soprattutto nel set di apertura di Norman Westberg, uno dei tantissimi musicisti che gravitano attorno alla galassia della band (ha suonato sugli ultimi due dischi) e che si cimenta in una quarantina di minuti in bilico tra Ambient e Post Rock, chitarra e Synth a creare paesaggi minimali ed enormemente dilatati. Una proposta decisamente più ostica di quella degli headliner, difficile seguirla con attenzione se non si è più che avvezzi al genere: per quanto non priva di una certa suggestività, i profani (il sottoscritto per primo) l’hanno vissuta più che altro come piacevole sottofondo in attesa del piatto principale.

 

Il copione, con Gira e i suoi compagni d’avventura, è sempre lo stesso: il cantante fa il suo ingresso agitando una catena di sonagli e chiama tutti a raccolta sotto il palco. Il pubblico ovviamente esegue con entusiasmo, provocando lo sconcerto delle maschere, che provano in un primo momento ad impedire la mossa, ma devono ovviamente cedere di fronte alla fiumana. Diciamocelo chiaramente: non una gran trovata. Perché se certamente a livello di impatto lo show ne può beneficiare, se è comprensibile pensare che al gruppo faccia piacere avvertire maggiormente la vicinanza del pubblico, è altrettanto evidente che rimanere per ore ammassati tra il palco e la prima fila, oppure incastrati nei corridoi, non sia esattamente comodo. Sarà che sto invecchiando e che certe trovate “Punk” non mi interessano più, ma ho ringraziato la mia postazione leggermente rialzata, perfetta per godere il concerto comodamente seduto.

La formazione di questo tour coincide con quella che ha registrato The Beggar, ospiti esclusi: accanto a Michael Gira, che suona la chitarra acustica ma che come sempre non ha un grande ruolo dal punto di vista strumentale, assorbito in pieno dal suo ruolo di cantante e maestro di cerimonie, ci sono il batterista Phil Puleo, Larry Mullins che sta spesso alle tastiere ma funziona anche come secondo batterista, Dana Schechter alla lap steel e ai Synth, nonché i due storici collaboratori Kristof Hahn (chitarra e lap steel) e Christopher Pravdica (basso). Si tratta di una line up affiatata e coesa, meno stratificata della precedente, molto più incentrata sulla componente rumorista e sul muro di suono che gli strumenti creano suonando assieme.

Ci sono sfumature, certo, ci sono vaghi inserti melodici, ricamati soprattutto dalle pedal steel, oltre che qualche squarcio luminoso ritagliato dalle tastiere, ma a dominare la scena è la violenza e l’impatto fragoroso dei sei lanciati a briglia sciolta.

 

I volumi sono altissimi, esagerati, da cantiere edile, fanno sembrare un concerto dei Motorpsycho una mera ninnananna per bambini. Gira urla come un pazzo, quasi in preda a furore sciamanico: è un modo di utilizzare la voce molto diverso e più monocorde rispetto alle prove in studio, anche gli effetti di cui la carica sono tipici della situazione live. Paradossalmente sembra quasi che nella dimensione live questi ultimi Swans siano tornati quelli abrasivi, eccessivi e provocanti degli inizi, laddove invece su disco hanno addolcito molto i toni, pur conservando le atmosfere sinistre che da sempre li contraddistinguono.

I volumi pazzeschi fanno perdere ogni distinzione tra piano e forte, anche nei rari momenti in cui la dimensione acustica viene posta in primo piano (il lunghissimo intero salmodiante di “The Beggar” oppure la conclusiva “Breathing”) ed è evidente come al gruppo piaccia da morire preparare i crescendo in maniera graduale per poi esplodere la propria furia iconoclasta martellando per parecchi minuti sugli stessi accordi, con l’assetto a doppia batteria che è ovviamente l’ideale per valorizzare questi momenti.

Il risultato alla fine è quello di ogni concerto degli Swans: pura devastazione sonora ma allo stesso tempo elevazione mistica, garantita dalla pulsazione incessante del drone.

 

Dall’ultimo disco non arriva molto, anche se c’è una versione di “No More of This” che da sola quasi vale il prezzo, mentre da segnalare c’è sempre l’ottima “Cloud of Unknowing”, ormai una delle tracce più rappresentative dell’ultima fase live, e le gradite sorprese di “The Hanging Man” e “Cathedrals of Heaven”, dal precedente disco. Quel che conta, in ogni caso, è l’impatto generale, con quel senso di apocalisse cosmica che ci ha fatto compagnia per due ore e mezza, ulteriore certificazione della grandezza assoluta di questa band. C’è bellezza nel rumore, c’è bellezza nel caos, c’è una sensazione di quasi beatitudine mentre tutto precipita e la valanga di suoni ci massacra le orecchie.

È stato poi molto divertente osservare le espressioni delle maschere, all’inizio terrorizzate, poi quasi rassegnate, mentre due vigili del fuoco presenti in sala si sono guardati per parecchi minuti come se non riuscissero a realizzare in pieno quel che stava succedendo.

Serata perfetta, speriamo solo di non dover aspettare troppo prima di rivederli.