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REVIEWSLE RECENSIONI
31/07/2023
Blur
The Ballad of Darren
Con “The Ballad of Darren” i Blur ci consegnano un album fatto di rimpianti e malinconia. Chi si aspettava un giro sulla giostra della nostalgia rimarrà deluso. Albarn, Coxon, James e Rowntree rinunciano a rassicurarci, preferendo raccontare i fantasmi che attanagliano la loro generazione.

Come ha più volte ribadito Alex James in diverse occasioni, arrivati a questo punto della carriera, per i Blur pubblicare un nuovo album è la cosa più rischiosa che possano fare. E invece, otto anni dopo, ci sono cascati di nuovo. Ma se nel 2015 Graham Coxon e lo storico produttore Stephen Street avevano dato forma a The Magic Whip partendo da una serie di jam registrate dalla band a Hong Kong due anni prima, per The Ballad of Darren i Blur hanno lavorato in studio tutti insieme come una piccola unità, arrangiando collettivamente le canzoni che Albarn aveva scritto lo scorso anno mentre era in tour con i Gorillaz.

Per quanto possa sembrare strano, era proprio così che i Blur lavoravano negli anni Novanta. Quando nel novembre scorso Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree si sono incontrati per organizzare le date a Wembley del luglio successivo, non sapevano che di lì a poco avrebbero lavorato su nuova musica. L’idea ha preso forma quando Albarn ha fatto ascoltare ai compagni di band una ventina di canzoni: ne hanno scelte una dozzina e a gennaio sono entrati in studio assieme al produttore James Ford (Arctic Monkeys, Depeche Mode), già al fianco sia di Albarn (The Now Now) sia di Coxon (The WAEVE). Nel giro di sei settimane, con lo stesso spirito cameratesco dei Beatles mostrato da Peter Jackson in Get Back, i Blur avevano completato le registrazioni del loro nono album.

 

Il risultato è un disco sobrio e rigoroso, l’esatto contrario di un tipico album di reunion, dove di solito si tende a indugiare sulla nostalgia (e in questo senso, va detto, anche The Magic Whip costituiva una piacevole eccezione). In The Ballad of Darren i Blur se ne tengono alla larga, proponendo un album di ballate malinconiche – che è ormai è il tipo di canzoni in cui Albarn eccelle – e relegando il rock chitarristico giusto a un paio di tracce, come “St. Charles Square”, che sembra uscita da Scary Monsters (and Super Creeps) di Dawid Bowie (con Coxon nei panni di Robert Fripp), la smithsiana “Barbaric” e “The Narcissist”, forse il pezzo che più ricorda gli anni Novanta.

Il resto delle canzoni – in realtà la maggioranza – sono ballate senza tempo, infarcite di archi e con un utilizzo della band al servizio delle canzoni. Ne sono un esempio il pezzo d’apertura, la sontuosa “The Ballad”, la cinematografica “Russian Strings”, oppure “Avalon”, che inizia con dei fiati alla Burt Bacharach per poi lambire territori beatlesiani.

Alla fin dei conti è il percorso intrapreso dagli Arctic Monkeys in Tranquility Base Hotel & Casino e The Car, un riferimento che Albarn ha scomodato in più di un’intervista (e non è un caso che al disco abbia lavorato proprio il loro produttore, James Ford), aggiungendo anche che l’utilizzo di un registro vocale basso da parte sua arrivi proprio sull’esempio di Alex Turner. Apparentemente defilato, Coxon ha invece dichiarato di non aver mai registrato così tante take di chitarra per un disco dei Blur. Il suo lavoro di cesello emerge però ascolto dopo ascolto (d’altronde il disco dei suoi The WAEVE parla esattamente questo linguaggio) e alla fine si può dire che a livello di gusto e scelte chitarristiche, in The Ballad of Darren ci siano alcune tra le performance migliori della sua carriera. Lo stesso si può dire della sezione ritmica, con un Alex James molto eclettico (le tonalità del suo basso sono meravigliose, in particolar modo nei pezzi più rock, “St. Charles Square” su tutti) e un Dave Rowntree in versione Ringo Starr, ovvero l’esempio massimo del batterista che sa come si arrangia una canzone d’autore, sapendo quando è il momento giusto di farsi sentire e quando è meglio invece suonare con eleganza in punta di fioretto.

 

Al di là di questo, il vero fulcro di The Ballad of Darren è il rapporto – personale e musicale – che lega questi quattro ormai cinquantacinquenni. Come anche The Magic Whip aveva messo in risalto, con tutti i difetti del caso dovuti alla sua genesi, quando i Blur sono chiusi in una stanza, inevitabilmente la magia accade e le canzoni di Albarn salgono a un altro livello. Da Think Tank in poi (Coxon abbandonò le sessioni di registrazione del disco con acrimonia), la narrativa dei Blur è incentrata sull’amicizia che li lega. Nel corso degli anni successivi ci sono stati scontri e ferite, ma a partire della reunion del 2008 il loro rapporto è stato pienamente recuperato, tanto che ora i Blur stanno assieme per il puro e semplice piacere di passare del tempo in reciproca compagnia. Ecco spiegato perché le parole che Albarn canta nel disco non sono da attribuirgli completamente: lui si limita a fungere da catalizzatore, incanalando nella sua voce anche le emozioni degli altri tre.

Il Darren di The Ballad of Darren è Darren “Smoggy” Evans, guardia del corpo di Albarn, del quale il cantante ha preso a modello la figura di everyman per narrare una storia collettiva, quella di un gruppo di cinquantenni che affronta il processo d’invecchiamento, si lascia alle spalle cose e persone, e riflette sulla fragilità della vita e degli affetti. È vero, The Ballad of Darren a tratti appare un disco triste e malinconico, ma sono sentimenti che Albarn rivendica con forza, sentendosi tutto il diritto di essere un cinquantacinquenne triste. Probabilmente ispirato alla recente rottura con la compagna Suzi Winstanley (Albarn non ha reso dichiarazioni in merito, anche se recentemente ha ammesso di aver dovuto affrontare una difficile separazione), The Ballad of Darren riflettere sui legami personali, ma alcuni passaggi sono volutamente ambigui e universali, di modo che l’ascoltatore possa leggerli come riferiti a un lutto o a una separazione, ma anche come fossero una meditazione sul mondo post-pandemico.

 

Non mancano testi in cui al centro c’è una certa satira sociale (in “St. Charles Square” si parla di gentrificazione, mentre in “The Nascissist” il tema è la vanità sui social media) oppure una riflessione politica (“Russian Strings”), ma il più delle volte insistono su temi personali come la depressione (“Goodbye Albert”), la volontà di non sentirsi più smarrito (“Far Way Islands”) e la ricerca della felicità in un luogo, come in “Avalon”, dove Albarn, riferendosi alla sua casa nel Devon, si chiede se sia valsa la pena costruire un posto così bello se poi non si ha nessuno con cui condividerlo.

Senza dubbio, però, il pezzo centrale del disco è “Barbaric”, in special modo il passaggio in cui Albarn dice «Abbiamo perso il sentimento che pensavamo di non perdere mai», una frase che potrebbe essere facilmente interpretata come un discorso del cantante ai suoi compagni di band. I tempi di Think Tank sono però passati e ora quello che i quattro Blur hanno è la loro amicizia e una chimica innata quando suonano assieme. The Ballad of Darren è il risultato di tutto questo, un album dove la band fa tesoro di tutto quanto fatto fino a questo punto, mettendo al centro il legame ormai indissolubile che li accomuna. Una cosa che ai tempi di Parklife magari poteva essere data per scontata, ma che ora, quasi trent’anni dopo, è invece più preziosa che mai.